Per carità di Patria e per la convenzione non scritta che almeno per un po’ non si può parlar male del governo Draghi, evitiamo di insistere troppo su certe inquietanti presenze nella squadra dei sottosegretari, ma qualche annotazione bisogna pur farla.
Non è certo confortante che nel Governo dei migliori di un Paese del G7 vi siano ancora personaggi come Carlo Sibillia, frequentatore assiduo, un tempo, di assemblee bancarie in cui sciorinava le teorie complottiste sui tentacoli plutocratici della Banca centrale europea, e che continua a sospettare che la discesa dell’uomo sulla Luna sia una montatura propagandistica degli americani. Aver cancellato dai social gli insulti a Mario Draghi è un’aggravante per meglio inquadrare il soggetto.
E non è meno sconcertante che almeno un dito sul volante di una politica estera tutta dipendente dal solo prestigio del Presidente del Consiglio, sia ancora usato dall’ex responsabile Esteri del Movimento Cinque stelle, tale Manlio Di Stefano, a cui si deve il copyright delle aperture a Maduro e che più recentemente ha inviato alla Libia le condoglianze per la strage in Libano.
Fermiamoci qui sulle presenze (l’elenco sarebbe lungo) ma almeno sulle cancellazioni qualcosa si deve aggiungere.
Che dire del tratto di penna (femminista?) che ha cancellato il vice ministro dell’Economia Antonio Misiani, e ha invece confermato una ex no TAV come Laura Castelli? Un vero dispetto a Draghi e a Franco, che hanno già abbastanza problemi.
Il caso Misiani è particolarmente vistoso. Se c’è un membro del Conte 2 che aveva padronanza di tutti i dossier, è proprio il senatore bergamasco, un bocconiano che conosce ciò di cui parla. Molto spesso argine e rimedio per le incertezze del ministro in carica Roberto Gualtieri. La continuità tra governi è anche memoria storica, e Daniele Franco avrebbe fatto meno fatica ad affrontare il futuro senza dover ricorrere a chissà chi per un riassunto della puntata precedente.
Gli è rimasta solo Laura Castelli, famosa per il «questo lo dice lei» con cui, ospite di Porta a Porta da Bruno Vespa, sbalordì Pier Carlo Padoan, che pazientemente le aveva spiegato la differenza tra deficit e debito, ma è sconsigliabile che l’ex Ragioniere dello Stato si rivolga ora alla ragioniera torinese, con laurea triennale in economia aziendale.
C’è forse un unico fatto positivo di questa ingiusta defenestrazione di Misiani, vittima del suo capo corrente diventato ministro, e del terrore zingarettiano dopo la gaffe maschilista nella rappresentanza PD al Governo.
Anziché rincorrere le gonnelle delle quote rosa e farsi coccolare da Barbara d’Urso, Zingaretti farebbe infatti bene a utilizzare nel suo scassato staff di partito l’esperienza di Misiani, riportandolo alla politica economica del Nazareno.
È un suggerimento non richiesto e quindi inopportuno, come tutto ciò che non viene sollecitato da Goffredo Bettini, e forse rischiamo di far male anche a Misiani (ci perdoni, ma è a fin di bene), ma sarebbe la grande occasione per chiudere la tragicomica esperienza di Emanuele Felice, attuale responsabile economico.
Noto per la sua avversione al Jobs Act, fautore delle nazionalizzazioni di autostrade, Ilva e Tim, tifoso del ritorno all’articolo 18, entusiasta – disse il primo giorno – di essere tornato alla politica attiva che «non frequentava più dagli anni del liceo» – è caduto banalmente al primo ostacolo: una intervista al Foglio.
È qui che ha raccontato la sua idea di sinistra, arrivando a definire il riformismo come il «meno peggio», lasciando solo intendere quale sarebbe per lui il meglio, cioè probabilmente tutto il resto dell’enciclopedia massimalista, sulla scia di Stefano Fassina e Franco Turigliatto.
Una spettacolare sortita, per il principale partito del riformismo italiano.
Inesperto e alle prime armi nella politica attiva (non risultano altre benemerenze), a Felice nessuno ha fatto in tempo a spiegare le ragioni del disastro laburista di Jeremy Corbyn, il suo modello preferito. Forse tornare sui banchi del liceo e ricominciare da capo non sarebbe male.