Dati protettiIl senso di Apple per il rispetto della privacy

L’obiettivo degli ultimi aggiornamenti è aumentare la trasparenza: l’utente potrà sapere quali informazioni vengono raccolte dalle app che utilizza e, più avanti, potrà anche scegliere se permetterlo o meno. Una piccola rivoluzione che solleva una questione fondamentale

Immagine di Omar Al Ghossen, da Unsplash

Sei hai un telefono in mano, c’è sempre qualcuno che sa cosa fai. Controllare la strada, leggere le notizie, fare una ricerca su internet sono tutte azioni che lasciano tracce, i dati. Questi all’insaputa dell’utente (spesso ne ha solo un’idea vaga) vengono raccolti, accatastati, utilizzati per creare profili, spesso venduti a parti terze e poi ancora ad altri.

È uno dei traffici più redditizi del momento, un’industria da 227 miliardi di dollari all’anno, sempre in funzione e sempre attiva. La finalità è quella di fornire pubblicità profilata, precisa e chirurgica per il tipo di persona che la riceve. Ma è anche una questione che riguarda, nel suo complesso, la riservatezza degli utenti.

Per la Apple la privacy è, come dicono, «un diritto umano fondamentale». Su questo principio hanno costruito un’identità (anche aziendale), ne hanno fatto una filosofia, un’arma di marketing e, negli ultimi mesi, forse anche uno strumento per la competizione con gli altri Big Tech: la reazione di Facebook (società tracker-in-chief, secondo la definizione dell’Economist) all’annuncio delle nuove policy sul tracking degli utenti, cioè la raccolta dei dati, è eloquente. E anche eccessiva.

Come si premura di spiegare la stessa Apple, le nuove modifiche che saranno completate con il nuovo aggiornamento, non ostacolano la pubblicità. Certo, pongono limiti alla profilazione o, per dirla meglio, lasciano scegliere all’utente se essere profilato o meno. È una differenza non da poco.

Nel dettaglio, l’aggiornamento a iOS14 e iPadOS 14, pronto da settembre 2020, impone agli sviluppatori di app che desiderano essere compresi nell’App Store (l’unico da cui è possibile essere installati sui prodotti Apple) alcuni protocolli, molto più rigidi in fatto di rispetto per la riservatezza dei dati ma più chiari per quanto riguarda la trasparenza.

Per esempio da dicembre 2020 figurano, tra i passaggi obbligati, le cosiddette “nutrition label”. Si tratta di cartelli informativi sulla privacy in cui ogni applicazione è chiamata a elencare, in modo chiaro e preciso secondo uno schema standard deciso dalla stessa Apple, quali dati dell’utente intende raccogliere e/o monitorare (la traduzione italiana di “tracking”).

All’utente è allora permesso sapere in anticipo se la app seguirà la sua posizione, se guarderà i suoi contatti o gli acquisti, i pagamenti, le mail. Saprà anche quali di questi vengono utilizzati per ragioni di marketing, per la pubblicità, per gli analytics.

I tipi di dati saranno raccolti in tre categorie: “dati usati per monitorarti”, “dati collegati a te” e “dati non collegati a te”. È, di fatto, una sintesi dell’informativa – quella che non legge nessuno ma che tutti dichiarano di aver letto – che già conteneva, nella prolissità delle sue decine di pagine, le stesse informazioni.

Il vantaggio sta nella sua agilità, nel fatto di essere uno standard uguale per tutte le app, nel suo essere focalizzato sull’impiego dei dati. Il principio è quello della “privacy by design” esposto dal Gdpr europeo, anche se (come si spiega qui) alcune delle categorizzazioni impiegate seguono impostazioni più americane.

È certo un passo in avanti. Forse non è perfetto, come puntualizzano alcuni: alcune app, ha rilevato Geoffrey Fowler sul Washington Post, non sono del tutto sincere sulle loro politiche della privacy. Altre, come Facebook, raccolgono tutti i dati possibili e immaginabili e di conseguenza hanno informative lunghe come papiri (che stancano la lettura).

Secondo quanto spiega a Vox John Davisson, senior counsel dell’Electronic Privacy Information Center la similitudine utilizzata non è corretta.

Le informazioni delle etichette nutrizionali sono inserite in un contesto preciso (la percentuale dei valori giornalieri) mentre le etichette della Apple non danno giudizi sul comportamento delle app, non spiega cioè se siano troppo invasive o meno. Ognuno, dice Davisson, lo deve stabilire da solo e non tutti possiedono gli strumenti per farlo.

Forse, dice, il paragone migliore è da fare con le previsioni del tempo: se si vede una probabilità di pioggia del 10%, non si prende l’ombrello per uscire. Se è al 90%, allora sì. L’utente, valutando a colpo d’occhio la quantità di dati che vengono catturati e analizzati, può capire se una app ha davvero a cuore la privacy o no.

Il secondo strumento che la Apple metterà in campo per favorire la trasparenza sui dati, è la funzione di App Tracking Transparency. Sarà disponibile a breve (in primavera) ed è il punto che, dicono, avrebbe fatto infuriare Mark Zuckerberg.

Con il completamento degli aggiornamenti, sui dispositivi Apple ogni app dovrà chiedere all’utente il permesso di tracciare i dati attraverso app o siti web di proprietà di altre aziende.

Ognuno potrà vederlo andando sulla casella Impostazioni: qui compariranno le app che (per obbligo) hanno dovuto avanzare la richiesta di permesso e l’utente deciderà se accordarlo o meno – il meccanismo è analogo alla richiesta di utilizzo di microfono e fotocamera da parte delle app di comunicazione audiovideo.

Quello che la Apple si premura di ricordare è che non si tratta di una mossa volta a colpire il business model di altre società. Il loro interesse è la tutela della privacy, o per la precisione, della trasparenza. Ne hanno fatto un valore aggiunto da decenni – Safari fu il primo browser che già nel 2003 bloccava i cookie di terze parti, funzionalità accresciuta nel 2017 con l’Intellgent Tracking Prevention, che bloccava i cookie finti proprietari sviluppati proprio per aggirare i primi blocchi.

Anche allora in tanti avevano lanciato grida di allarme. Certo, qualcuno ha perso dei soldi ma il mondo non è finito. Anzi, si sono adattati, alcuni anche integrando i principi di privacy e rispetto dell’utente nella propria offerta.