C’è stato un momento, tra i trenta e i quarant’anni, in cui siamo state tutte Enrico Letta.
È quel colpo di coda subito prima dell’ingresso nell’età adulta, quel momento in cui ti pare di non poter proprio abbandonare il decennio più fesso della tua vita, in cui credi di volere che continuino in eterno lo struggimento e la lagna, il sentimentalismo e la monotematicità.
Lo sai, perché hai conoscenti adulte, che dopo non ti sarà più permesso annoiare le amiche coi «lui ha detto e allora io gli ho detto e aspetta ti faccio vedere la schermata secondo te cosa significa?» (fossi religiosa, ringrazierei le divinità ogni sera per avermi fatto avere trent’anni quando non c’era WhatsApp). Lo sai che, dopo i quaranta, se tenti di parlare alle tue amiche di problemi sentimentali, quelle chiamano la buoncostume.
Enrico Letta ha 54 anni. Ne dimostrava 54 già a 24. Eppure è una trentenne smaniosa. Una di quelle che illustrano alle amiche il loro piano precisissimo. Si rifaranno del bruto che le ha lasciate, umiliate, tradite, si rifaranno tornando da lui non in lacrime ma belle e spietate (come Nino Manfredi di Montecristo in quella commedia novecentesca), belle e spietate lo risedurranno, belle e spietate gli faranno credere di essere di nuovo ai suoi piedi, e poi belle e spietate lo lasceranno. In lacrime lui, stavolta. Non è un piano perfetto?
Le amiche annuiscono, perché i trent’anni sono quel tempo in cui pensi che tuo dovere di amica sia assecondare qualunque cretinata. E anche perché – questa è una buona abitudine che perdura anche nell’età adulta – non è che una si possa agitare più di tanto per le vite degli altri. Ti pare una buona idea cercare di attuare un qualche revisionismo d’una storia dalla quale sei uscita con le ossa rotte? Accòmodati, ci sentiamo presto.
Il revisionismo di Enrico Letta è quello di chi, oltre a essere stato malamente mollato, lo è pure stato in mondovisione. Egli sta a questo secolo come Isabelle Adjani stava alla fine di quello scorso, quando nessuna più notava la sua struggente bellezza giacché tutte eravamo impegnate a dire: poverina, Daniel Day-Lewis l’ha mollata con un fax.
Letta potrebbe far fare pace a Israele e Palestina, risolvere il problema della fame nel mondo o quello delle vaccinazioni in pandemia, mettere d’accordo Confindustria e Cgil, vincere il Nobel per la pace e pure il premio della critica a Sanremo, e sarebbe sempre e comunque quello che non guarda Matteo Renzi per non ucciderlo con lo sguardo mentre gli passa la campanella, sempre e comunque quello dello «Stai sereno».
Il fatto che il nostro fax d’addio sia lo «stai sereno» di Renzi a Letta è la miglior dimostrazione che non abbiamo uno star system: siamo un paese in cui i più riconoscibili sono dei politici cessi (prima di scandalizzarvi ricordatevi che sono maschi, quindi si può dire, coi maschi la buona educazione viene sospesa e le ipocrisie abolite). Il nostro Daniel Day-Lewis è Renzi e la nostra Isabelle Adjani è Letta: c’è bisogno d’aggiungere altro, per capire la nostra bancarotta estetica?
Insomma ieri Letta è apparso in un video che sembrava quelli che Elisabetta Franchi si fa girare dall’assistente invece di farseli da sola: il telefono è troppo distante e quindi, proprio come accade guardando i film italiani in presa diretta, si passa il tempo a dire «eh?! che ha detto?!».
Nel video gesticolava molto, indicava molto verso l’obiettivo, diceva molto di cercare «la verità nei rapporti tra di noi per uscire da questa crisi» (come tutte le piantate rancorose che fingono di non essere tali).
Aveva una camicia col primo bottone tragicamente aperto, faceva intuire un petto non glabro ma – peggissimo – con peluria rada, e questa è un’altra di quelle cose che posso dire solo perché Letta è dell’ultima specie non protetta dalle battutacce e dalle osservazioni estetiche: i maschi bianchi eterosessuali.
Soprattutto, faceva il suo monologhetto senza tecnici del suono davanti a una gigantesca cartina con due sagome dell’Italia. Cartine autostradali, par d’intuire, ma non voglio liquidare il momento storico della candidatura del nuovo segretario del Pd dicendo che non ha trovato una scenografia più consona. C’era di certo un messaggio, in quelle cartine. Una cosa tipo «non rimpiangerò Parigi, mi farò andar bene Roncobilaccio». Una cosa tipo «ripartiamo dalla provincia, mica dalle scuole private della classe dirigente romana». Una cosa tipo «manca l’analisi, e poi non ho l’elmetto».
Mentre Letta dava appuntamento all’assemblea del Pd di domenica chiedendo di ascoltare «la mia parola», espressione che a noialtre che da piccole andavamo a messa sembra un po’ un delirio cristologico, Mario Draghi parlava in un centro vaccinale e, mentre leggeva un compìto discorsetto sullo smartworking e il contributo babysitting, sbottava «chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi», fra l’altro con una cadenza particolarmente agnelliana (ieri, sul Venerdì di Repubblica, Lapo Elkann diceva che Draghi è il Gianni Agnelli di questa epoca, e in effetti lo sprezzo per le espressioni che lo costringono a usare evocava infanzie di vestiti alla marinara e balie severissime).
Avrei potuto amarlo di più solo se avesse fatto presente che sono parole di italiani che non sanno l’inglese, lingua nella quale nessuno si sogna di dire «smartworking». Povero Draghi, circondato da italiani che si percepiscono poliglotti e hanno difficoltà persino con l’italiano. Letta, che almeno se la cava col francese, potrebbe spiegarglielo. Si tratti di Renzi, del Pd, o di quelli che scrivono i provvedimenti inventando parole inglesi per farli sembrare più moderni, l’enfer sono comunque les autres.