Non si capisce perché i figli oggi non li chiamino più Giuseppe. Oggi è pieno di Gianfilippi, Tazi, Pierfabi, Marchi-Giovanni-Mattei-Luchi, oggi c’è abbondanza di nomi fini, così fini che diventa «ordinario» – nel senso letterale del termine – chiamare i figli così.
Molto più straordinario sarebbe chiamarli Giuseppe, anche perché i Giuseppi promettono quasi sempre bene. Giuseppe è un nome antico e pieno di aspettative. Non tradisce, Giuseppe. E poi Giuseppe è un nome polimorfo, polifonico, policromatico, politonale. Cambia aspetto, suono, colore, accento a seconda della circostanza. Pino, Pepè, Pe’, Bepìn, Peppe, Pinìn, Giussy, Useppe, Pinotto, Popi, Pep, Peppino, Peppone. E Beppe, che è il migliore.
Beppe Viola non avrebbe mai potuto chiamarsi Tazio, con tutto il rispetto nostro (e suo) per il mito di Nuvolari. Beppe Viola doveva per forza nascere Beppe-Viola, con tutto quello che ne sarebbe venuto fuori dopo, quando sei costretto ad affrontare l’impervia strada dell’età adulta, quella che ti lascia solo nella foresta senza più le briciole di pane che ti segnino il ritorno all’infanzia.
Non sappiamo quando Viola abbia raggiunto l’età adulta, a che età l’ha raggiunta; non sappiamo se mai sia diventato adulto, nell’età adulta. Non lo sappiamo perché noi il Beppe non l’abbiamo mai conosciuto. È strano ma è così. Strano, perché Milano è città microscopica, per certi ambienti. Ci si conosce tutti. Strano, perché solo adesso, scrivendo queste poche righe, ci rendiamo conto che fino a ora per noi Beppe Viola è sempre stato un amico, uno di casa, e non soltanto un semplice «amico di amici». Allora perché abbiamo sempre pensato di conoscerlo pur non frequentandolo
Evidentemente ci sono, negli infiniti intrecci della memoria, labili fili dell’immaginario e del desiderio così trasparenti da sostituirsi, da sovrapporsi alla realtà. Ma sono molto più forti di tutti gli altri. E Viola, col quale dieci anni fa abbiamo parlato soltanto qualche volta per telefono promettendoci sfracelli e salutandoci con il solito «dobbiamo assolutamente vederci», è dentro di noi – lo è sempre stato – molto più di quanto non lo siano altri con i quali abbiamo avuto frequentazioni ben più assidue.
Beppe Viola è sempre stato uno dei nostri (e noi, speriamo, due, venti, cento dei suoi) al punto che oggi, dieci anni dopo, ci verrebbe voglia di tirar su il telefono e di chiamarlo. Oggi, nella bolgia del mezzogiorno, al bancone del bar Gattullo, che resiste in questa città che cambia, tra un «panino-muratore» e una brioche con la marmellata, ci aspettiamo di vedercelo spuntar fuori dietro alla testa di Domenico, il «Signor Domenico», come scriveva lui.
Domenico Gattullo, professione ristoratore pugliese a Milano, è l’unico biografo riconosciuto di Beppe Viola e di quella generazione di scapestrati, dediti a una sorta di post-scapigliatura cui la cultura semiufficiale milanese deve moltissimo. Il suo bar-pasticceria-«paninificio» di Porta Ludovica è stato il vero tempio del comico degli anni Sessanta-Settanta.
Insomma, ha segnato un’epoca, per usare parole un po’ scontate, ma efficaci. L’ha segnata insieme e non meno del «Derby», cabaret-fucina, e a pochissimi altri luoghi di perdizione di quegli anni: l’Ortica, il Giambellino, lo stadio, l’ippodromo e qualche bar del Ticinese, forse.
Viola non era solo. C’erano certi Jannacci, Cochi Ponzoni, Renato Pozzetto, Villaggio, Teo Teocoli, Boldi, Toffolo… Gente che l’«Ufficio Facce» (grande invenzione di Viola o di Jannacci?) imponeva nel gruppo di quelli che «l’importante è esagerare».
E poi c’erano tutti gli altri: il sottobosco. Quelli a cui gli stessi «scapestrati» devono molto della loro follia, del loro lessico così spurio, imbevuto di ammiccamenti gergali e di costruzioni sintattiche anomale; intendiamo parlare di quei sopravvissuti di allora che adesso non ci sono più: marginali di una mala un po’ per finta e un po’ per vero, che riempivano le notti e non solo.
In questi luoghi, bar o altro che fossero, deputati al vizio del comunicare, prendeva così forma un ardito plastico della città che nessuno – neppure il più imprevedibile architetto della balordaggine – avrebbe mai saputo offrire alla nostra cultura. Loro, quelli dell’«Ufficio Facce», una generazione di genialoidi a volte geni, ci riuscirono.
Domenico Gattullo racconta del Beppe. Del Beppe da solo, del Beppe con gli altri, del Beppe da solo. Gli occhi si fanno lucidi e i panini dimenticati sulla piastra si anneriscono all’eccesso (mai distrarre, neppure per queste cose, Domenico se sta lavorando). C’è un vivacissimo pezzo scritto da Viola su quel luogo geografico di Porta Ludovica dove in molti trascorsero le mezze giornate. Il pezzo parte dalla descrizione proprio di un panino: lo «special».
«Il materiale impiegato per la confezione di uno special potrebbe risolvere i più gravi problemi di alcuni Paesi del Terzo Mondo. Questa una delle considerazioni emerse recentemente durante la conferenza dei non allineati ad Algeri. Fidel Castro ha dichiarato che potrebbe rinunciare ai mercati sudamericani e asiatici per la vendita dello zucchero se Domenico Gattullo fosse disposto a diventare suo cliente. (…) Il triplo special è il panino più sontuoso che mai sia stato ideato dall’uomo, un autentico capolavoro dell’arte italiana, l’opera più avanzata della tecnologia culinaria universale. Naturalmente la gamma di panini creati dal genio di Domenico è varia e irreversibile, come dice la parola stessa. Caratteristica di questi panini: 1. Il grado di fantasmagoria multipolicromica; 2. Potenziale scarsamente nutritivo; 3. Il prezzo: ottantamila lire l’uno.»
Ma Beppe Viola non c’è, non lo vediamo più spuntare dietro alla testa del «signor Gattullo». Chissà cosa direbbe, cosa scriverebbe oggi, con tutti questi bocconiani col telefonino che affollano (non ci sono solo loro, ma in certe ore sono in maggioranza) il «suo» bar, quello dove «i camerieri vengono reclutati presso la Comédie Française o il Bolscioi di Mosca».
Beppe Viola è il 17 ottobre 1982, una gelida domenica. Stava lavorando alla moviola per preparare il servizio – era assunto in Rai come telecronista – su Inter-Napoli.
Gianni Brera, in uno storico «coccodrillo» apparso su «Repubblica» il martedì successivo, scrisse di lui: «È morto Giuseppe – Pepinoeu – Viola. Aveva 43 anni. (…) Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli. (…)
«Povero vecchio Pepinoeu! Batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato nella corsa; tirava mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita. Aveva un humour naturale e beffardo. Una innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente per aver chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. E io, che soprattutto per questo lo amavo, ora ne provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore…»
Sarà diventato adulto davvero Beppe Viola? Avrà ritrovato le briciole in tempo? Poco importa, a pensarci bene, perché quella sua «romantica incontinenza», quella sua fanciullezza impenitente l’ha reso ai nostri occhi – e lo rende ancor più oggi rileggendolo – uno dei più ironici, intelligenti, sensibili cesellatori delle nostre banalità quotidiane.
È davvero curioso che Beppe Viola lavorasse (quello era il «lavoro» vero, gli altri lavori erano hobby) sul calcio in Tv, in un luogo dove ogni fantasia intelligente è spesso, sempre, negata. Eppure lui anche lì riusciva a stupire. Non crediamo che fosse tra i giornalisti sportivi televisivi più amati. I tifosi, si sa, sono tra le categorie più fanatiche e conservatrici. Bastava mettere un aggettivo di troppo, leggere in chiave ironica una prestazione di Rivera, di Corso, di Platini per inimicarsi milioni di persone. E non per una settimana, per degli anni.
Eppure Viola seppe mettere del pepe, in quel suo lavoro. Certi suoi servizi da San Siro passarono alla storia. Alcuni abbinamenti arguti e provocatori – immagini e commenti; immagini e canzoni; rallenti e replay – sono rimasti assolutamente suoi, anche se forzatamente relegati all’immediatezza di un dovere di cronaca.
Chi amò e ama davvero il calcio non può non aver adorato quel faccione tondo e un po’ stralunato che sapeva essere tifoso con arguzia, sportivo con sapienza, là dove invece tifo e sport non si abbinano mai a qualcosa che non sia più che banale. Ci fossero stati più videoregistratori, allora, oggi gli interventi sul calcio di Viola sarebbero dei piccoli cult movie.
Certo, oggi se Beppe Viola lavorasse ancora in Tv, probabilmente per lui sarebbe diverso. Oggi a volte c’è più spazio per l’ironia nello sport (raro), ma c’è anche più spazio per le banalità, il parlarsi addosso, per la provocazione messa al servizio dell’Auditel. Chissà cosa farebbe oggi il Beppe. Magari farebbe soltanto lo scrittore, o vivrebbe felice e lontano su qualche isolotto sperduto dei tropici…
Di certo in Rai per il dipendente Viola Giuseppe la vita lavorativa non fu facile. Basta leggere la drammatica, a volte purtroppo esilarante «Lettera al Direttore» pubblicata in questa raccolta: «“Ma lo sai che il direttore ti apprezza molto?” mi dicono, battendomi una mano sulla spalla. “Ma lo sai che i tuoi servizi sono proprio originali?” Insomma, complimenti tanti, soldi mai nemmeno una lira, promozioni o cose del genere esattamente come prima. (…) Ho quarant’anni, quattro figlie e la sensazione di essere preso per il culo…»
D’altra parte è giusto così: come avrebbe potuto trovarsi bene in un meccanismo del genere uno che andava in giro dicendo, seriamente almeno quanto seriamente prese la vita: «Sarei disposto ad accettare di avere 37 e 2 per tutta la vita in cambio della seconda palla del servizio di McEnroe»?
Gli altri lavori di Beppe Viola li conoscono quasi tutti. Pochi sanno che sono suoi, altri addirittura – le nuove generazioni – li hanno perduti come si perde quasi sempre il patrimonio della nostra cultura quando per qualche motivo fugge le ufficializzazioni e le santificazioni del dopo.
Molte delle canzoni del secondo periodo d’oro di Jannacci, per esempio, sono firmate (non andate a cercare il suo nome sui dischi, non sempre c’è) dal paroliere Beppe Viola. Compreso e soprattutto l’album di “Quelli che”. Ma sono cose che appartengono ormai al collezionismo di chi, come noi, possiede tutti i dischi di un filone italiano che è andato via via scemando.
Per Jannacci Beppe Viola, amico dell’infanzia, dai tempi di via Lomellina e dei campetti di calcio dell’Ortica, fu fratello maggiore e minore. Fu figlio e padre. E la cosa fu reciproca.
E gli scritti su «Linus». Ancora una volta fu Oreste del Buono, il Grande Dissacratore, a volerlo a «Linus». La rubrica di Viola si chiamava Vita vera e fece proseliti, sostenuta in seguito anche da Fulvia Serra che aveva preso la direzione del giornale dopo l’abbandono di OdB.
Del Buono, di quel periodo, ricorda interminabili sere al Capolinea, locale milanese di buon jazz, assieme a Viola e a Marcello Mastroianni. Ma non concede troppi particolari: è difficile, anche per lui, ricordare senza farsi invischiare l’anima. Solo un flash: un’immagine del Beppe vicino a casa sua (di Oreste), sotto il diluvio, senza cappello, né impermeabile, né ombrello. A testa nuda, camminava tranquillo. Del Buono gli domanda. Il Beppe risponde: «Scusa, ma mi diverto tanto…»
E poi ancora, altri lavori-hobby. Come le collaborazioni ai giornali (sempre argute, anche quando si intuiva che erano di «mestiere»). E il cinema. “Romanzo popolare” di Monicelli, per esempio. La sceneggiatura originale (Age e Scarpelli), in un primo tempo era stata concepita per essere ambientata a Roma. Ma presto, visto che il protagonista era un sindacalista di fabbrica (Ugo Tognazzi) decisero di adattare il tutto a una città del Nord, Milano. Chiamarono a riscrivere i dialoghi Beppe Viola ed Enzo Jannacci. Ne uscì un nuovo film che per forza del linguaggio, caratterizzazioni e situazioni comiche non può essere relegato tra i film «di passaggio» di Monicelli, come fece a suo tempo certa critica. Rivedetelo, se non ci credete. Ci troverete tra l’altro, in una scena, lo stesso Beppe Viola che si ritagliò una minuscola parte, una «comparsata»: la maschera reazionaria e volgare di un cinema di periferia. Un gustoso flash che riproponiamo qui sotto.
Un cinema di periferia. Il sessantenne sindacalista Basletti (Tognazzi) porta la giovanissima moglie Vincenzina (Ornella Muti), che è incinta, a vedere un film vietato. Mentre Tognazzi si attarda, la Muti sta per entrare in sala. La maschera (Beppe Viola) la squadra dalla testa ai piedi.
VIOLA Un momento, dove va?
TOGNAZZI (accorrendo) Guardi che è con me…
VIOLA Quanti anni ha?
MUTI Diciotto il mese prossimo.
VIOLA Allora si presenti il mese prossimo. Dentro qua è tutto sesso e nudità! Lei (a Tognazzi) può entrare. Te (alla Muti) stai fuori… Lasciare libero il passaggio, prego…
TOGNAZZI Guardi, adesso le faccio vedere una roba… (Sbottona il cappotto della moglie, si vede che è incinta.) La qui presente signora, che sarebbe praticamente mia moglie, in quanto a sesso e nudità, lei se lo cucca dalla mattina alla sera!
VIOLA A casa sua! Qua se non ha fatto i diciott’anni non entra!
TOGNAZZI Non ha fatto i diciott’anni ma mi sta facendo un figlio!… Insomma, un po’ di elasticità, andiamo!
VIOLA Ma cosa c’entra l’elasticità! Ce n’è troppa di elasticità! E poi a me tutta questa elasticità non mi va mica bene, sa? Io sono un democratico… e cristiano!
TOGNAZZI Ah, allora vogliamo metterla sulla politica?…Guardi, lei sarà anche un cristiano, ma in quanto a democratico… le manca l’ottica!
VIOLA Cosa mi manca a me?
TOGNAZZI Lei non è proiettato…
VIOLA …Cosa mi manca a me?…
TOGNAZZI …non recepisce le istanze, questo glielo dico io!…
VIOLA Quelli come voi qualche anno fa, qua venivano a vedere Biancaneve e i sette nani e lei (la Muti) a lui (Tognazzi) lo chiamava papà!
TOGNAZZI (ironico) …Ma no!
VIOLA E chi vuol capire lo capisca!
TOGNAZZI Io ho capito che lei è un pirla!
VIOLA Piano! (gli dà uno spintone)
TOGNAZZI Uei, tieni giù le mani!
VIOLA Piano con le parole!… (spintoni)
TOGNAZZI Ueh, ma vuoi morire?
VIOLA Ma va’ a ca’ tua!
TOGNAZZI Vuoi morire?
VIOLA Ma cosa vuoi morire cosa, Ottica!
Ma “Romanzo popolare” ci regalò anche la più bella canzone della collaborazione Jannacci-Viola: “Vincenzina e la fabbrica”. Basterebbe questo.
Non resta molto da scrivere. Si rischierebbe di esagerare, coinvolti come siamo dal fascino di chi per noi, che lavoriamo nell’umorismo e nella satira, è stato uno dei saldi, indiscussi punti di riferimento.
Non vogliamo però che si dimentichi, in questo mondo di distratti, un grande talento il cui unico «difetto» è forse stato quello di essere troppo avanti, di aver cioè anticipato di almeno un decennio il comune senso dell’ironia, della satira, del comico. Della vita.
Giuseppe Viola, in arte Beppe, aveva dentro il dono della curiosità. Riuscì a trasmetterlo a molti di noi. Lo conservò in chi lo stava perdendo. E poi comunque si chiamava Giuseppe. Era uno giusto.
prefazione a “Quelli che… Racconti di un grande umorista da non dimenticare”, di Beppe Viola, Baldini + Castoldi, 2021, pagine 230, euro 16