Il 24 novembre del 2018 Boris Johnson tenne un discorso a una conferenza del Democratic Unionist Party (DUP), il principale partito unionista nordirlandese. Allora era il volto più noto della fronda più radicale del partito conservatore, spesso critica nei confronti del governo di Theresa May, considerato troppo arrendevole nelle trattative per fissare i rapporti post-Brexit tra il Regno Unito e l’Unione europea. Anche il DUP in quella fase criticava molto la gestione delle trattative della premier. Nonostante il sostegno parlamentare del partito fosse fondamentale per garantire la maggioranza al governo, May stava concludendo un accordo con l’Unione che per l’Irlanda del Nord prevedeva il mantenimento di molte delle regole del mercato unico europeo, cioè quello che il DUP voleva evitare a tutti i costi. Il mancato sostegno del DUP al piano May fu uno dei motivi che portò alla ripetuta bocciatura dell’accordo a Westminster e alle dimissioni della stessa May dalla guida dei conservatori e del governo.
Alla conferenza del DUP Johnson criticò fortemente l’accordo perché avrebbe introdotto barriere al commercio tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord e reso quest’ultima una “semi-colonia” economica dell’Unione europea, e disse che era possibile evitare l’instaurazione di un confine rigido sia marino (tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito) sia terrestre (tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, che fa parte dell’Unione europea). I presenti applaudirono il discorso di Johnson, che consideravano un potenziale nuovo leader più vicino alla loro sensibilità. «Nessun governo britannico conservatore dovrebbe firmare nulla del genere», disse lui riferendosi agli accordi conclusi dal governo di cui fino a pochi mesi prima era stato ministro degli esteri.
Eppure, a inizio 2021, con l’entrata in vigore definitiva degli accordi post- Brexit, il governo Johnson sembra aver concluso un accordo molto simile a quello di Theresa May, almeno per quel che riguarda le nuove regole commerciali applicate all’Irlanda del Nord. Il Northern Ireland Protocol, infatti, prevede che merci e persone possano continuare a fluire liberamente tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord ma anche che parte dei controlli e della burocrazia che Bruxelles applica ai traffici con i Paesi extra Ue ora avvengono alla frontiera tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito.
Dall’inizio dell’anno, con le nuove regole, le merci che l’Unione europea esporta in Gran Bretagna attraverso il mare d’Irlanda sono spesso rimaste bloccate a lungo nei porti nordirlandesi per consentire l’esecuzione dei necessari controlli e questo ha provocato polemiche da parte degli industriali e dei lavoratori del settore. A inizio febbraio si è arrivati a momenti di tensione nei porti di Belfast e Larne, dove alcuni funzionari incaricati dei controlli sono stati minacciati.
Stando agli accordi, a partire dall’1 di aprile la stessa cosa dovrebbe succedere anche alle merci che viaggiano in direzione opposta: dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord e quindi al mercato europeo. Finora non è successo perché il governo Johnson ha accordato con Bruxelles diversi “periodi di grazia” per consentire un’applicazione graduale delle nuove norme. Dall’inizio del prossimo mese i prodotti (soprattutto di genere alimentare) importati dai Paesi Ue avrebbero bisogno di particolari certificati, mentre dall’1 di luglio sugli stessi prodotti dovrebbero iniziare ad applicarsi anche fisicamente controlli ai confini, come avviene a qualsiasi dogana.
A inizio marzo Londra ha però deciso di estendere unilateralmente il primo periodo di grazia fino al prossimo 1 ottobre. Il vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič ha però definito questa decisione un «chiaro allontanamento da un approccio costruttivo» nel dibattito sulla posizione dell’Irlanda del Nord e la Commissione (supportata da tutte le capitali europee) ha proposto di intraprendere azioni legali contro la decisione di Londra, in quanto contrarie agli accordi e quindi al diritto internazionale.
Qualunque sia l’esito della battaglia legale tra il governo di Londra e la Commissione di Bruxelles, a poche settimane dall’entrata in vigore degli accordi post-Brexit è chiaro che la risoluzione della questione nordirlandese è meno semplice di quanto Johnson aveva fatto intendere alla conferenza del DUP di due anni e mezzo fa. Il partito unionista, dopo aver in qualche modo agevolato il processo che ha fatto diventare lo stesso Johnson primo ministro, è tornato a criticare il governo.
Solo che questa volta il suo sostegno parlamentare non è più decisivo, perché dopo l’ampia vittoria alle elezioni del 2019 Johnson governa con una maggioranza monocolore conservatrice. «La rilevanza del DUP per gli equilibri del Parlamento del Regno Unito è diminuita radicalmente – ci dice Lisa Claire Whitten, studentessa di dottorato alla Queen’s University di Belfast ed esperta di Brexit e di politica nordirlandese – anche se è stato il periodo tra il 2017 e il 2019 a essere anomalo, visto che normalmente i partiti nordirlandesi non giocano un ruolo centrale a Westminster».
La battaglia contro il protocollo
Persa la possibilità di incidere sulle scelte del governo per via parlamentare, il DUP sta cercando di ottenere il ritiro del protocollo in altri modi. Lo scorso 21 febbraio il partito ha annunciato di essere pronto a una causa legale contro il provvedimento negoziato da Londra e Bruxelles, sostenuta anche da altri partiti unionisti come l’Ulster Unionist Party (UUP) e il Traditional Unionists Voice (TUV).
Ma più che per ottenere effettivamente il ritiro del protocollo, la mossa potrebbe essere dimostrativa, o dettata da motivi di consenso. «A inizio anno – spiega Whitten – i sondaggi suggerivano che il DUP stesse perdendo consensi a favore di partiti più radicali come il TUV, e questo può spiegare in buona parte le ragioni dell’irrigidimento delle posizioni del partito».
«L’obiettivo della strategia è in parte costruire legami e solidarietà con hard-Brexiters in Gran Bretagna come Ben Habib del Brexit Party, e in parte far crescere l’opposizione del fronte unionista al protocollo – suggerisce invece Katy Hayward, docente alla Queen’s University di Belfast – ma è difficile che la causa venga sostenuta».
Anche se oggi si sente tradito dal governo Johnson come lo era stato da quello May, il DUP continua ad avere alleati tra i conservatori, tradizionali alleati nella causa unionista (tanto che il nome ufficiale del partito conservatore è Conservative and Unionist Party). Tra questi c’è l’influente gruppo di ultraconservatori chiamato European Research Group, di cui fa parte anche Jacob Rees-Mogg, forse il volto più noto dell’ala dei tories che supportò la Brexit dopo Johnson. Rees-Mogg non si discosta dalla linea ufficiale del partito, ma recentemente ha suggerito al DUP di allearsi con le altre forze politiche unioniste in vista delle elezioni per l’Assemblea nordirlandese del 2022, in modo da ottenere la maggioranza e votare contro il protocollo nel 2024.
L’articolo 18 del protocollo prevede infatti il consent mechanism, cioè che l’assemblea nordirlandese si pronunci periodicamente sulle parti dell’accordo legate al commercio.
Ma a oggi sembra difficile che lo scenario disegnato da Rees-Mogg diventi realtà. «La maggioranza dell’elettorato dell’Irlanda del Nord non sostiene la dura posizione del DUP sul protocollo – riflette Whitten – anche se quelle posizioni sono la maggioranza nell’elettorato unionista, che a oggi rappresenta il 33% degli elettori. Se si votasse oggi – continua Whitten – la maggioranza dell’assemblea voterebbe per mantenere il protocollo».
Infatti, nonostante il DUP sia il primo partito dell’assemblea dell’Irlanda del Nord e la sua leader Arlene Foster sia il primo ministro locale, la somma dei parlamentari di partiti nazionalisti e repubblicani (cioè favorevoli all’unificazione con la Repubblica d’Irlanda) come il Sinn Féin o il Social Democratic Labour Party o moderati come l’Alliance Party supera quella dei partiti unionisti, cioè storicamente schierati per l’appartenenza di Belfast al Regno Unito. E i sondaggi suggeriscono che il blocco unionista non sia destinato a diventare maggioritario.
L’assemblea nordirlandese funziona con il sistema del power sharing (condivisione del potere), cioè con un accordo tra i partiti che compongono l’assemblea, che partecipano tutti al governo. Il sistema fu introdotto con gli accordi di pace del Venerdì Santo del 1998, per far sì che unionisti e nazionalisti (che avevano combattuto per 30 anni una sanguinosa guerra civile) partecipassero insieme al governo locale. Se le due parti non trovano un accordo l’assemblea viene sospesa e il governo viene affidato a civil servants che si occupano solo dell’amministrazione corrente, senza toccare gli argomenti più divisivi. È successo varie volte nella breve storia dell’assemblea nordirlandese, l’ultima tra il 2017 e il 2020.
Quali alternative?
Durante la campagna elettorale per il referendum sulla Brexit del 2016 il DUP si schierò nettamente per il leave. «Il DUP ha come punto assolutamente prioritario l’appartenenza al Regno Unito – spiega Hayward – ma è anche fermamente euroscettico, e l’attuale opposizione al protocollo cerca anche di capitalizzare quel sentimento».
La leader del partito e prima ministra dell’Irlanda del Nord Arlene Foster allora diceva che la Brexit avrebbe offerto nuove opportunità e che i supporter del remain che in quei giorni prevedevano difficoltà erano «profeti di sventura». In campagna elettorale non si parlò molto della questione irlandese, che però divenne ben presto uno dei punti più complessi nelle trattive per ridefinire i rapporti commerciali post-Brexit tra Regno Unito e Unione europea.
Nessuno, almeno a parole, vuole il ritorno della frontiera rigida tra Irlanda e Irlanda del Nord. L’abolizione di fatto della frontiera (agevolata anche dall’appartenenza comune dei due Paesi alla Comunità europea) fu uno dei punti fondamentali degli accordi del Venerdì Santo del 1998. Rinnegarlo vorrebbe quindi dire rischiare di risvegliare le tensioni tra unionisti e nazionalisti irlandesi. Mantenere l’assetto fissato dagli accordi del Venerdì Santo è l’obiettivo prioritario dichiarato della Commissione europea.
L’alternativa al ritorno di una frontiera rigida tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda sarebbe che l’intero Regno Unito rimanga allineato al mercato unico, come si ipotizzava negli scenari di soft Brexit. «Ma nessuna di queste opzioni è politicamente appetibile per Londra – dice Whitten – quindi il protocollo è probabilmente qui per restare».
«Davvero poche persone in Irlanda del Nord vorrebbero un confine più rigido nel mare d’Irlanda o verso l’Irlanda – aggiunge Hayward – Brexit e il protocollo hanno reso entrambi i confini più rigidi, anche se in modi diversi».
L’ha detto chiaramente anche il parlamentare nordirlandese di Westminster del Partito Socialdemocratico e Laburista Colum Eastwood durante il dibattito, lo scorso 22 febbraio, su una petizione presentata dal DUP contro il protocollo firmata da 140mila persone: «La sola alternativa al Protocollo è un confine in Irlanda e se qualcuno lo vuole, dovrebbe dirlo».
Come si schiererebbe il DUP davanti a una scelta netta su quale confine mantenere? «Il DUP in quanto partito unionista preferirebbe mantenere il confine marino con la Gran Bretagna il più aperto possibile – prova a rispondere Hayward – e in linea di principio avrebbe questo come priorità rispetto al mantenimento del confine di terra aperto. Quello che contestano di più è che ora abbiamo questi controlli sulla frontiera marina per evitare quelli sul confine irlandese di terra. Questo suona come una “vittoria” per i nazionalisti e una “sconfitta” per gli unionisti, da qui la loro forte opposizione al protocollo».».
«Il DUP – nota anche Whitten – ha supportato la Brexit ma nessun modello particolare di Brexit. Finora il partito ha percepito ogni possibile soluzione come una minaccia all’integrità del Regno Unito. Non è la sua posizione ufficiale, ma il DUP preferirebbe il ritorno di un confine rigido con l’Irlanda rispetto all’attuale confine marino con il resto del Regno Unito».