Quando avevo diciassette anni non c’erano i social: il mio passatempo preferito era andare a vedere Fassbinder al Lumière, il cinema bolognese per chi si dà un tono, e poi ubriacarmi di vino cattivo nella taverna greca lì di fianco, e vomitare nel loro bagno.
Quando avevo ventisette anni non c’erano i social: il mio passatempo preferito era piangere perché il tizio di cui ero cotta quell’anno non mi amava come le mie amiche sostenevano dovesse amarti quello che avevi deciso ti dovesse amare.
Quando avevo trentasette anni c’erano i social: meno di ora, ma abbastanza da farmi passare il tempo a spiare quel che pubblicavano delle loro vite tutti quelli che mi avevano spezzato prima o poi il cuore (il tizio che me lo spezzò alle medie non si è mai aperto un profilo Facebook, essendo abbastanza furbo da sapere poi come finisce; io non ho mai potuto spiare la sua incipiente calvizie, e questa mi sembra un’ingiustizia cosmica).
Quando avevo quarantasette anni studiavo i social per scrivere un libro su quanto siamo diventati scemi, e quindi di casi McCammond ne ho catalogati parecchi, il che non m’impedisce di raccogliere la mandibola dal parquet ogni volta. La combinazione di immobilità da pandemia e social è stata letale: era molto più facile ignorare l’imbecillità collettiva degli americani di sinistra, quando assaggiavi più spesso le loro eggs benedict che le loro opinioni.
Alexi McCammond è una giornalista ventisettenne. La prima volta che ho sentito parlare di lei è stato per quello che credo sia stato il primo scandalo della presidenza Biden. Un tizio che lavorava all’ufficio comunicazione della Casa Bianca aveva minacciato una giornalista che voleva scrivere del conflitto d’interessi che lo riguardava. Il tizio era infatti fidanzato con una giornalista. La giornalista era Alexi. Il fidanzato di Alexi si era poi dimesso dicendo d’essersi comportato in maniera raccapricciante, ma il conflitto d’interessi non sarebbe comunque più sussistito: venne annunciato che Alexi avrebbe lasciato il suo posto di reporter politica per andare a dirigere Teen Vogue, l’edizione per adolescenti del giornale patinato più famoso del mondo.
Non sapevo che due anni prima, nel 2019, Alexi si era scusata per dei tweet. Dei tweet in cui aveva, nientemeno, fatto delle battute sugli asiatici. Gli americani d’origine asiatica in questo periodo vengono aggrediti se non addirittura uccisi, e non è un buon momento per le battute, almeno non secondo il criterio «tragedia+tempo» esposto in “Crimini e misfatti” (Louis CK dice che l’etica di una persona si vede da quanto ha aspettato a farsi una sega dopo l’attentato alle Twin Towers, e che lui se n’è fatta una tra la prima e la seconda torre).
Ma Alexi i tweet non li ha scritti la settimana scorsa. Li ha scritti nel 2011. Aveva diciassette anni. (Appoggiate il caffè, prima di cominciare a pensare a cos’avreste combinato voi se a diciassette anni vi avessero dato un cellulare e l’accesso ai social. Appoggiatelo perché inizierete a tremare così forte che lo rovescerete).
Se n’è scusata nel 2019, giacché qualunque persona tenga alla propria carriera, e non sia abbastanza nota da poter vendere la propria scrittura alle sottoscrizioni dei lettori, qualunque persona americana che dipenda dalla benevolenza di multinazionali smaniose di dirsi suscettibili, qualunque persona con qualcosa da perdere sa che con il «fine pena: mai» non puoi metterti a discutere: puoi solo sperare che ti venga fatta la grazia, in nome dell’essere stata giovane e inconsapevole.
La grazia è rara, ma i gran capi della Condé Nast (l’editore di Vogue) gliel’avevano fatta. Avevano detto che cancellare e scusarsi era la prova che aveva capito i suoi errori (il gravissimo errore di fare battute, roba da 41 bis). Solo che, quando è stato annunciato che sarebbe stata il nuovo direttore di Teen Vogue, i redattori scarsi del gruppo editoriale si sono fatti notare nel modo d’elezione dei lavoratori culturali di questo secolo: dicendosi indignati che una persona dalla fedina morale così compromessa avesse un incarico di responsabilità. (È un ottimo momento, per essere intellettuali scarsi in terra americana: quelli più bravi di te prima o poi diranno la cosa sbagliata, come accade a chi ha un cervello interessante, e tu potrai brasargli la carriera).
E poi sono arrivati i soldi, quella cosa che fa girare non solo la mia vita e quella del padre di Mahmood, ma anche l’esistenza dei giornali patinati. «Soldi» in questo caso significa: inserzionisti. Due case di cosmetici hanno sospeso le loro campagne sui giornali Condé Nast. Decine di milioni di dollari persi, se non fossero stati presi provvedimenti.
E quindi ieri Alexi ha annunciato dolente che non avrebbe più diretto Teen Vogue, che purtroppo le sue malefatte (delle battute su Twitter, fatte quand’era diciassettenne) rischiavano di oscurare le importanti istanze del giornale, che lei e l’azienda si separavano consensualmente.
Tutti vincitori. L’editore che aveva scelto una ragazza di colore come direttore, sapendo sì che aveva fatto battutacce ma non sapendo che s’era travestita da indiana d’America a un Halloween (sì, travestirti da qualcosa che non sei tu è considerata gravissima appropriazione culturale, per la quale Condé Nast aveva già licenziato un direttore l’anno scorso: ve l’ho detto che è un paese di scimuniti). Le case cosmetiche, che senza il minimo sforzo hanno fatto la parte di quelli più attenti alle istanze razziali di tutti. Tutti tranne Alexi, che se vuole continuare a lavorare nei media americani non può neanche sbottare circa il suo stato di metà della first canceled couple.
Quando aveva diciassette anni, l’hobby di Brett Kavanaugh era bere birra. Quando, cinquantatreenne, è stato candidato alla Corte Suprema, una donna ha raccontato che il Kavanaugh diciassettenne l’aveva violentata. Quando l’hanno interrogato in mondovisione su quella sera, ha risposto «mi piaceva molto la birra».
È stato confermato nel suo ruolo di giudice della più alta corte degli Stati Uniti, col solo svantaggio di venire assai irriso per la risposta sulla birra. Giacché c’è una peculiarità di quest’epoca del terrore in cui, se sei una persona di sinistra sensibile ai giusti temi, rischi la carriera per un tweet: ed è che, se invece sei di destra, puoi dire qualunque enormità senza perdere consenso.
Va così anche dalle nostre parti, l’avrete notato. Non so voi, ma io rimpiango molto i tempi in cui eravamo scemi a modo nostro, invece di emulare goffamente la scemenza specifica degli americani.