Improvvisamente una grande nuvola, un’ariaccia umida, un clima incerto dominano sul governo e sul Partito democratico alle prese con specifiche incertezze, come se un mago cattivo ne avesse simultaneamente bloccato i movimenti. L’impasse sulla vaccinazione da una parte e il caos al vertice del Pd dall’altro non hanno ovviamente nulla a che fare l’una con l’altro ma sono due fatti politici che per una strana congiunzione astrale vengono a cadere nelle stesse ore proprio come la pioggia di questo inizio marzo: fastidiosa, fredda.
Mario Draghi sta da giorni allestendo tutto ciò che c’è da allestire per preparare una seria vaccinazione di massa ma ancora non si riesce a entrare nel vivo di una grandiosa iniziativa di massa (anche se ci sono Regioni come il Lazio dove le cose stanno funzionando: e la magnifica fotografia che immortala Sergio Mattarella nel leggendario Spallanzani in attesa di offrire il braccio alla siringa ne è un emblema che resterà nella memoria), mentre il Comitato tecnico scientifico si è riunito d’urgenza per cercare di mettere in atto una nuova strategia – lockdown nei weekend – ma tutto appare come malfermo, incerto, provvisorio: misure restrittive mentre si ha l’impressione che i controlli anti-assembramenti siano notevolmente più deboli di quelli di un anno fa, ecco perché si pensa alle zone rosse nei weekend, misura che prevedibilmente non avrebbe un’accoglienza positiva.
È vero che si allestiscono spazi nuovi e hub dedicati alla vaccinazione, ma il ritmo resta al di sotto del necessario. I medici fanno come al solito il possibile ma malgrado l’accordo nazionale sull’utilizzo dei medici di base la macchina non funziona perché le Regioni non riescono ad attivare il meccanismo. Per forza che il Paese sia sempre più nervoso. Il presidente del Consiglio ha parlato di una «via d’uscita non lontana» ma la gente ormai vuole sapere quando. Ed è difficile dare una risposta, perché la verità è che si naviga non diciamo a vista ma certo con il vento contrario, con le nuvole che si gonfiano.
La politica sembra ferma proprio adesso che dovrebbe correre. E l’impasse comporta una sensazione orribile di impotenza, di insicurezza. Guardate il Pd in queste ore. Cacciatosi da solo in un quello che sembra un vicolo cieco, umiliato e offeso persino dal portavoce del «punto di riferimento fortissimo dei progressisti», quel Rocco Casalino che si è sentito in diritto di dover parlare di «cancro» a proposito di non meglio definiti aspetti o personaggi della vita del Pd: e meno male che si tratta del portavoce del presunto federatore, quel Giuseppe Conte che sta trattando con Beppe Grillo le condizioni della sua leadership alla testa del Movimento 5 stelle. I sondaggi infieriscono (Swg dice Pd quarto al 16%) ma il problema non è tanto questo quanto il fatto di non riuscire a trovare una figura adeguata al ruolo di segretario del partito in una fase eccezionale come questa. Uno non troppo debole ma nemmeno troppo forte, hai visto mai che rivolta il partito come un pedalino.
E dal cilindro Dario Franceschini ha tirato fuori il nome dello straniero di coppa – si diceva un tempo nel basket – quell’Enrico Letta che pare accetterebbe di lasciare Parigi e la prestigiosa cattedra di Science Po per sedersi alla guida di un partito a pezzi ma solo a condizione che sul suo nome ci fosse il sì di tutte le correnti (già, sempre lì si torna). Una soluzione alla Draghi per un governo di unità nazionale del partito in cui però nessuno si fida di nessuno. E se Letta sarà, sarà solo in seguito a un accordone fra le correnti, con i necessari bilanciamenti per accontentare la sinistra con Peppe Provenzano sostanziale numero due, gli zingarettiani e Base riformista ricompensati chissà come. Letta, defenestrato esattamente 7 anni fa da Matteo Renzi (con il consenso della sinistra di allora), potrebbe dunque fare il salvatore della Patria. Correnti permettendo. Per il momento però piove forte.