Il viaggio sarebbe durato tutta la notte. Osservai le luci della città allontanarsi con un terrore che non avevo mai provato prima, anche per l’accoglienza che mi sarebbe stata riservata.
«Dove mi stanno portando?»
Ogni tanto chiudevo gli occhi e pensavo a cosa potesse essere successo davanti al mio ristorante: l’arrivo della polizia, gli amici, i semplici curiosi, la festa del Santo Rosario macchiata da un evento del genere.
«Chi lo dirà alla mia famiglia?»
Questo era il pensiero che più mi faceva stare male. Nelle Filippine non avevo una nuova famiglia, e a nessuno avevo dato il numero di telefono dei miei cari in Italia. Forse, mi dicevo, lo avrebbero saputo, come chiunque altro, dai telegiornali. E i telegiornali come avrebbero presentato la notizia?
Piombai in un’ansia profonda. «Si sono sbagliati… si sono sbagliati..». Non facevo che ripetermelo: «Perché questi hanno rapito proprio me?». In quel momento non potevo ancora immaginare che sarei finito in mano al gruppo dei paramilitari separatisti islamici Abu Sayyaf, non ci pensavo proprio. Anche perché le imbarcazioni sulle quali stavamo viaggiando erano sì potenti, ma non abbastanza da reggere una traversata fino a Jolo, dove era verosimile che degli Abu Sayyaf mi avrebbero portato.
Avevo una certa esperienza di barche, nella missione ne avevamo una. E no, quella barca senza tubo di scappamento – rumorosissima – non ci avrebbe potuto portare tanto lontano.
«Rimarremo in provincia» mi dicevo. Cercavo di aggrapparmi alla razionalità, di rimanere freddo, ma i pensieri si accavallavano l’uno sull’altro.
«Come farò a spiegare che hanno preso una cantonata?»
«Io non ho le disponibilità finanziarie per pagare un riscatto».
«E la mia famiglia? Come si sentiranno, loro?»
Seduto a poppa, ero bagnato dalla testa ai piedi, e continuava a farmi male il polso. L’orologio, incastrato nella manetta, spingeva contro la carne. Alla fine, il vecchietto che era sulla barca insieme a me si impietosì – che poi forse avrà avuto una cinquantina d’anni, all’incirca un mio coetaneo, solo con un reticolo di rughe che lo faceva sembrare un nonnino. Non mi tolse la manetta, ma mi strappò l’orologio, e se lo mise in tasca.
Quell’orologio non l’ho più visto.
Era trascorsa un’oretta, ma non so dirlo di preciso, quando le luci di Dipolog scomparvero definitivamente e ci ritrovammo immersi nel buio più assoluto.
Ero certo che la barca stesse comunque seguendo la costa, a relativa distanza, perché un’imbarcazione del genere non poteva permettersi avventure in mare aperto. Il mare è traditore, il mare può cambiare diverse volte nel giro di pochi minuti, far crescere le proprie onde, inghiottirti.
Quindi ne ero sicuro: per quanto le luci della città fossero scomparse alla vista, la terra non era poi così distante.
Inoltre il buio mi tranquillizzava. Nella notte non puoi essere un bersaglio, perché nessuno può vederti. Lo avevo sperimentato nelle situazioni più pericolose della mia storia da missionario.
E così, complice la stanchezza, mi addormentai.
Al risveglio, mi ritrovai ricoperto da una tela cerata, con due persone sedute sopra di me. Chiunque ci avesse visto dall’esterno avrebbe semplicemente immaginato dei pescatori accomodati placidamente sopra le reti da pesca, non certo dei rapitori che nascondevano un ostaggio.
Sentivo il rumore della nostra barca, ma anche quello di altre imbarcazioni – più piccole, con uno o due occupanti, le riconoscevo dal suono dei loro motori. Doveva essere l’alba, dunque, il momento della giornata in cui i pescatori uscivano per mare.
Non mi sbagliavo. Poco dopo giungemmo a una spiaggia. Io ero bagnato fradicio, ma pur essendo ancora mattino presto, la temperatura si avvicinava già ai trenta gradi, mi sarei asciugato presto. Mi accorsi che non avevo più le scarpe.
Sceso dalla barca mi avvicinai a uno scoglio arancione scuro, striato di marrone, e mi ci appoggiai. Avevo dormito, ma ero stravolto.
Chiusi un attimo gli occhi e quasi boccheggiai. Di colpo mi riapparve, come se ce l’avessi avuta davanti agli occhi, la canna della pistola che mi era stata puntata dentro al ristorante.
Cercai di respirare, di scacciarla dalla mente. Il sollievo non durò che qualche attimo perché i miei rapitori mi spinsero subito in avanti, senza alcuna delicatezza, verso la vegetazione: erba alta e tagliente e palme da cocco, che mi nascosero alla vista di chiunque.
Cominciammo a camminare. Io, senza più nemmeno un paio di sandali, facevo molta fatica, e un nuovo terrore si insinuò in mezzo agli altri. In passato avevo sofferto di una terribile infezione a una gamba che ora, ogni sei o sette mesi, si ingrossava. Con me non avevo certo una bottiglia di alcol per disinfettare le piccole ferite che quel tragitto mi avrebbe di sicuro causato: piccole ferite che però mi avrebbero potuto impedire di camminare.
«E se non posso più camminare» pensavo «diventerò soltanto un peso. E se diventerò soltanto un peso, forse questi decideranno di farmi fuori all’istante».
Ma per il momento non potevo fermarmi, anche perché appena rallentavo un po’ loro mi spingevano per la schiena. Provai a far capire che non ce l’avrei fatta, senza un paio di calzature, e alla fine mi diedero delle infradito, che però non erano della mia misura e mi rendevano la camminata ancora più difficoltosa. Decisi di proseguire comunque a piedi nudi. In più ero sempre ammanettato con le mani davanti, e stare in equilibrio non era per niente facile, a ogni passo rischiavo di cadere.
Ero davvero un peso, che stava rallentando l’intera comitiva. Se ne dovettero accorgere anche loro perché a un certo punto il tizio basso e grassottello – il capo della banda, che ora era composta da sei, sette persone – venne da me e mi mostrò la chiave delle manette.
«Fai anche solo un passo falso e ti sparo, oppure ti lascio incatenato da qualche parte e butto la chiave».
Mi disse qualcosa del genere, e finalmente mi tolse le manette.
Ricominciammo a camminare in mezzo alla vegetazione. Non si passava per sentieri battuti, ovviamente, davanti a me c’era solo un’erba altissima e affilata.
Allora alzavo gli occhi al cielo, che si era ormai fatto azzurro, e intanto, osservando la posizione del sole, provavo a fare ipotesi su dove ci trovassimo. Avevamo viaggiato in mare per sei, massimo otto ore, e mi dissi che dovevamo ancora trovarci nella provincia di Dipolog. No, non ci eravamo allontanati di tanto.
Speravo di sentire il frastuono di qualche elicottero. Magari qualcuno mi stava cercando… ma c’era solo il rumore dell’erba che spostavamo al nostro passaggio, e che intanto aveva riempito di tagli le mie braccia.
da “Guardavo il cielo. Ostaggio dei terroristi islamici. La vera storia di un uomo libero”, di Rolando Del Torchio, Piemme, 2021, pagine 288, euro 17,50