Anelli e vaccini Il monologo di Scanzi è un’antologia mitomane della commedia all’italiana

Sedicente caruccio, ricco e di successo, in un fenomenale video da una spa rifiuta l’etichetta di furbetto, minaccia querele e si lancia in una caricaturale autocelebrazione, spacciandosi come eroe della scienza e martire dell’invidia

Gian Mattia D'Alberto / LaPresse

«Va bene, lo capisco: io son famoso e loro no, io son ricco e loro no, io son caruccio e loro no, io ce l’ho fatta e loro no. La capisco, l’invidia: anch’io mi starei profondamente sui coglioni, se non fossi Andrea Scanzi».

Andrea Scanzi è così generoso che s’incarica anche del disbrigo della pratica «perché mai viene scritto quest’articolo così come cento altri»: invidia, tutta invidia.

Andrea Scanzi è così famoso e ricco e caruccio (ma, se vale «ricco» non essendo lui David Geffen, forse potrebbe azzardare anche un «bello» non essendo George Clooney: sarebbe proporzionato, no?) che se si fa iniettare un avanzo di fiala di vaccino vien giù il dibattito pubblico.

Nel giorno del centenario di Nino Manfredi, a un anno dalla morte di Alberto Arbasino, neanche Morra è riuscito a scansare Scanzi dalla conversazione collettiva. Morra, presidente dell’Antimafia, che va a fare un cazziatone a Cosenza forse perché non hanno vaccinato i suoi suoceri o forse perché sì (lui dice che il suocero è morto, e sarebbe quindi una dose più sprecata di quella di Scanzi), e viene nel suo essere Alberto Sordi surclassato dal medico cazziato, che sostiene la piazzata gli abbia provocato un malore, e annuncia querele.

Le querele annunciate sono il mio genere letterario italiano preferito, ma forse la querela per cazziatone è superata dalle querele per pensiero magico di Scanzi, che – vantandosi d’intasare le procure, «tanto ne faccio venti al mese» – annuncia cause a chi gli abbia scritto «Scanzi deve morire, spero gli venga un trombo». Reato di speranza.

Il video di domenica sera è una delle cose più belle che siano state girate in Italia dopo la morte di Monicelli, e invito tutti a investire ventiquattro minuti nella di esso visione. Per coloro che fossero impegnati a operare a cuore aperto, ne riassumo i punti salienti, sperando Scanzi non voglia querelarmi per il reato d’omissione dei raccordi.

Si comincia da una stanza d’albergo che poi si capisce essere la camera d’una spa, giacché Scanzi dice che è in clinica a fare un check-up che fa ogni sei mesi, poi dice che in questi esami non si mangia e si fa molta sauna, e quindi insomma siamo più dalle parti dei massaggi drenanti che da quella della risonanza magnetica. «Se mi vedete un po’ spossato è perché quando si fanno questi giorni si mangia poco, anzi niente, e si fa parecchia palestra». A un certo punto gli trilla l’orologio, e dice «ho finito le calorie anche oggi». Dicci tutto di te, Andrea, sii la videocassetta dell’aerobica di Jane Fonda di questo secolo.

Uno dei dettagli più interessanti è l’uso della parola «pertinente», che Scanzi utilizza più volte per definire la sua vaccinazione. Chissà pertinente a cosa. Comunque dice che «larga parte degli italiani» avrebbe dovuto ringraziarlo (lui dice «avrebbero», ma non vorrei mi querelasse per avergli trascritto la concordanza un po’ così).

Dice le cose che avete già letto ovunque: che voleva dare il buon esempio, «volevo dire agli italiani: io rischio, perché mi fido della scienza», che tutti gli dicevano mannò, ma dove vai, ma non fare il fenomeno, ma lui niente, cocciuto eroe che non è altro. Dice che grazie a lui ora esistono le liste di riservisti del vaccino, liste che esistevano anche prima, tanto che lui ci si è iscritto, ma ora esistono grazie a lui.

«Ho utilizzato la mia personalità, la mia popolarità, il mio seguito sui social e nel mondo reale, per dire a quei due milioni e centomila che mi seguono qui, a quelli che mi comprano i libri, a quelli che mi guardano in televisione, a quelli che vengono a vedermi a teatro, a quelli che mi leggono sul Fatto» – scusate se taglio prima della principale, ma ci sono casi in cui nell’inciso c’è tutto ciò che serve, in questo caso la lista transpartitica di coloro cui Scanzi ha salvato la vita, e se non lo capiamo siamo degli ingrati.

«Intanto: chi mi definisce furbetto del vaccino, io lo querelo». Reato di ricuccismo lessicale.

«A tutti quelli che m’insulteranno e mi minacceranno farò un mazzo in tribunale che mi divertirò da morire» – Andrea, insegnami a gioire del fatto che una querela si trascini per anni e poi quando vinci ti riconoscano due patate e cinque lupini, magari mi metto a farne venti al mese anch’io, magari ho sempre sbagliato a querelare raramente, magari è un gusto che posso acquisire.

«Tu pensa il furbetto del vaccino Scanzi, che ha la pagina social su Facebook più potente d’Italia, forse al secondo posto dopo Salvini, ma insomma» – autocertificazione di potenza (dopo quella di ricchezza e quella di carucceria) a parte, Scanzi al settimo minuto e in terza persona arriva alla parte importante dell’episodio: tutto il casino è nato perché è stato lui a raccontare d’aver fatto il vaccino.

Come un concorrente di Sanremo che non resista a instagrammare un filmato delle prove, come un ventenne incontinente che esista solo se si geotagga. Quand’è stato che non abbiamo più saputo fare niente senza socializzarlo? Ma la sua mica è incontinenza: è che voleva educarci.

«Un po’ di vispezza, nella vita, eh, ragazzi», ci redarguisce Scanzi se ce la prendiamo con lui solo perché siamo dei morti di sonno che non hanno pensato a farsi riservisti del vaccino. La lista, ci spiega Scanzi, viene fatta dal medico curante che, dopo che ti sei candidato, ti c’infila «se ti ritiene meritevole». Chi ha detto che in Italia non esiste la meritocrazia?

A un certo punto Scanzi, il mio preferito tra i compiaciuti, si china verso un tavolino, son venti minuti che parla e dice che aveva preso degli appunti ma gli sembra di aver detto proprio tutto, guarda il copione che non ha seguito e gongola: «Perfetto, perfetto».

Ma è solo al minuto 21 che Scanzi arriva al cuore della verità: che noi morti d’invidia lo siamo perché lui vende più libri di noi (vendere più di me non è invero impresa epica). Sono già pronta a citargli contro «quella leggibilità un po’ mignotta che rende “anche piacevoli” i grandi scrittori» (è un Arbasino del ’77, Fantasmi italiani: non mi quereli, Scanzi, non le sto dando della mignotta), quando Scanzi, una fenomenologia dell’italianità fatta uomo con catenina (gli anelli se li è tolti, dev’essere una regola del centro benessere), fa la cosa che più mi piace osservare. Ipertrofizzarsi le cifre non avendone bisogno.

«I giornalisti sfigati che han 78 anni e han venduto tre copie e io ne vendo centomila in tre giorni». È allora che vado a controllare i GFK, i rilevamenti delle vendite dei libri, e ci trovo cifre per cui darei un rene. Però quelle cifre sono trentacinquemila copie per l’ultimo libro di Scanzi, trentunomila per il penultimo, quarantottomila per il terzultimo. Fanno centomila in tre libri, non in tre giorni. Perché lo fai, disperato ragazzo mio?

Ma non faccio in tempo a chiedermelo che Scanzi sta già dicendo che lui non ha segreti, «oddio, ce ne ho magari a livello sessuale, diciamo che la mia compagna potrebbe raccontare tante cose piccanti», ed è allora che capisco che sì, Ugo Tognazzi (che oggi compirebbe 99 anni) era perfetto però è morto, ma Carlo Verdone è vivo. Se si stufa di vendere più libri di Scanzi (l’ultimo Verdone è a trentottomila copie), può per favore sbrigarsi a dirigere il biopic del caruccio di successo? Anelli e vaccini, se posso suggerire un titolo.

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