Per il momento Enrico Letta ha provato a cavarsela con una mossa alla Mario Draghi, invitando i dirigenti del Pd, e i mille delegati dell’Assemblea nazionale che domani dovrebbero eleggerlo segretario, a giudicarlo sulla base del discorso che pronuncerà davanti a loro (sia pure su zoom). Fatta salva la rilevante eccezione del mezzo scelto per recapitare il messaggio – nel caso di Letta un video su Twitter, strumento sconosciuto al presidente del Consiglio – è giusto la prima cosa che Draghi disse ai partiti dopo l’incarico, nel corso delle sue consultazioni a Montecitorio: ci vedremo in Parlamento, lì dirò cosa intendo fare e voi potrete decidere se appoggiarmi o meno, grazie. No trattative riservate, no perditempo.
È tutto da vedere se a Letta riuscirà un’operazione del genere. Come e quanto sia riuscita a Draghi, e se alla fine dei conti sia stato un bene, considerando la lista dei ministri, è questione che ci porterebbe lontano. Un certo grado di scetticismo e di cautela potrebbe però essere utile all’uomo che sta per diventare segretario del Pd, per evitare di ripercorrere ancora una volta il tipico ciclo del leader di centrosinistra, acclamato all’arrivo e liquidato alla partenza con la stessa unanime celerità.
Ormai Letta dovrebbe avere l’orecchio abbastanza allenato per cogliere certi segnali, sapendo che la retorica del salvatore della patria, dell’eroe senza macchia e senza paura chiamato a raddrizzare con la sola forza del suo braccio il legno storto del partito, piegando le insaziabili correnti e i grigi burocrati dell’apparato, non è che l’innesco, la faccia visibile di quel meccanismo infernale. Sta dunque a lui ora non cedere alla tentazione di calarsi nella parte preconfezionata. Sta a lui evitare la scorciatoia del maoismo democratico, del leader che invita a «sparare sul quartier generale», che passa il suo tempo a demonizzare il suo partito attraverso veline a uso di retroscena, per dipingere se stesso nella parte della vittima e tutti gli altri nel ruolo dei nemici del cambiamento. Non foss’altro perché è il racconto che puntualmente si conclude con l’eroe che getta la spugna, si arrende e se ne va in esilio, magari dopo avere lanciato l’ultimo appello, all’interno e all’esterno, a vendicare il suo sacrificio.
È un gioco che ha finito per consumare la sinistra italiana. Il Movimento 5 stelle, in fondo, è nato anche così. Nella storia del centrosinistra non c’è infatti leggenda nera, lettura deformata e mostrificante della sua vita interna e dei suoi meccanismi di selezione e discussione, che non sia venuta dall’interno, e dall’alto. È il solito gioco gattopardesco del capocorrente vittima delle correnti, che è il primo a fornire ai giornali la rappresentazione di un partito come di un’associazione mafiosa, non per niente come tale raccontato nei retroscena, con il lessico delle inchieste di mafia (i «capibastone», la «cupola», le «pugnalate»). Con chi se la vogliono pigliare i democratici se poi un Alessandro Di Battista li prende in parola e mette la piovra sui manifesti?
Prima ancora dell’alleanza con i Cinquestelle, Letta dovrebbe tagliare loro questo genere di rifornimenti: armi non convenzionali da troppo tempo accettate nei regolamenti di conti interni, che finiscono regolarmente al nemico. Il resto verrà di conseguenza.