Il nome della protagonista di quest’articolo non verrà fatto fino alla fine di quest’articolo. C’è una ragione per questa omissione provvisoria, e la ragione è che il nome della protagonista della storia che mi accingo a raccontare è la risposta a una domanda che m’ero fatta l’altro giorno, domanda sulla quale voi di certo v’interrogate da allora: ci tengo a non rovinare la suspense.
Questa è la storia di Grisù, ma più ancora è la storia di DT.
Grisù è una gatta. DT è una deputata.
L’altro giorno DT annuncia a coloro che seguono la sua pagina Facebook che il caso di Grisù è molto grave. È accaduto, infatti, che Grisù viaggiasse su un treno assieme ai suoi proprietari. DT li chiama «la sua famiglia», giacché appartiene, DT, a quell’umanità postmoderna che, non avendo mai lavorato in miniera, ha il tempo e le energie per preoccuparsi di istanze quali «gli animali non sono oggetti epperciò non hanno proprietari». Prevedo un’imminente riforma del codice penale per cui, se rubo una mucca al fattore che si guadagna da vivere mungendola, il mio non sarà abigeato ma rapimento, giacché il fattore non è il proprietario della mucca ma un suo parente. Senso del ridicolo l’è morto, ma proseguiamo.
Grisù quindi viaggiava con questi esseri umani la fattispecie del legame coi quali verrà poi chiarita dalla psicoterapia familiare, ed è scappata. Perché i proprietari dormivano? Perché si era rotta la porta della gabbietta? (Qui arriveranno quelli, gli stessi di «la sua famiglia», che mi spiegano che si dice «trasportìno», giacché «come osi dire che gli animali stanno in gabbia, loro sono la nostra famiglia» e altre follie di questo tempo sbandato). Sono tutte ragioni valide, ma io opterei per la più ovvia: perché è un cazzo di gatto, non un ricercatore universitario o un salumiere o una massaia. È un gatto: non parla, non fa scelte razionali, non sa a che stazione deve scendere.
È peraltro interessante che un personaggio simbolico di quest’epoca di deliri identitari si chiami Grisù, come il drago sparafuoco che voleva fare il pompiere della nostra infanzia – ma non divaghiamo.
Insomma il capotreno (probabilmente maschio, bianco, e perfino etero: l’orrore, l’orrore) trova ’sta gatta che vaga per il treno, la prende per una randagia (classismo!), e la fa scendere, che secondo gli indignati è specismo (la parola più stupida d’un’epoca competitiva in quanto a parole stupide), ma in realtà è esattamente quel che farebbe con un umano senza biglietto. Un gatto il cui padrone (scusate: familiare) non la accompagni non ha titolo di viaggio. Siamo una società così specista che non abbiamo previsto, sui treni, l’opportunità che il gatto viaggi solo. Forse la possibilità sussisteva in certi vecchi film Disney, quelli che oggigiorno è meglio evitare giacché in essi i gatti siamesi rappresentano discriminazione razziale.
Quando DT annuncia questo scandalo e la propria imminente interrogazione parlamentare sulla sua pagina Facebook, in un video in cui dice «foto» e «cosa» con la prima «o» chiusa, e «polizia» con la zeta dolce, nessuno ritiene di proporre un decreto legge che obblighi i parlamentari a frequentare corsi di dizione.
Del suo allarme si occupa la polizia ferroviaria, che evidentemente non ha di meglio da fare, e alcuni volontari, che certamente si adoperano moltissimo anche per gli esseri umani con problemi più seri dell’essere stati lasciati alla stazione sbagliata.
La deputata invoca «una rivoluzione culturale anche nel mondo animale, un mondo troppo spesso aggredito e mai ritenuto alla pari del mondo dell’essere umano». Ha ragione DT, diamine. Caratteristica precipua della nostra epoca è il trascurare gli animali e i bambini. Non li facciamo spadroneggiare abbastanza, perdinci. Cosa possiamo fare, oltre a lasciar mangiare i cani nei piatti degli umani al ristorante, e a stigmatizzare chi trova queste scene vomitevoli?
Eleggere gatti in parlamento? Dare a pesci rossi cattedre nelle università? Inserire ore di rieducazione ai bisogni dei gatti nei programmi scolastici? Smetterla di mangiare con le posate per distinguerci dai criceti, sciocchi portatori di complesso di superiorità che non siamo altro?
DT chiede assai meno: un regolamento che preveda la fuga di Grisù, cioè di «un animale di affezione» (che il dio delle parole abbia pietà di noi) che dovesse allontanarsi dai proprietari (lo so, lo so) in treno. Squadre specializzate che lo inseguano e lo riportino ai familiari, cose così. Mi sembra fattibile; sui regionali non c’è il controllore, ma l’accalappiagatti è personale necessario, si troverà il budget, si dovesse rinunciare ai sedili per avercelo: gli umani familiari d’animali d’affezione staranno volentieri in piedi pur di recuperare fondi per i gatti in fuga, perdindirindina.
«Nel 2021, credo che sia arrivato il momento di trattare con civiltà gli animali, domestici o non, e chiedersi cosa sarebbe successo se a essere ritrovato fosse stato un computer o un oggetto prezioso. Sarebbe sicuramente stato conservato e poi consegnato alle autorità competenti. Perché questo non dovrebbe avvenire con un animale domestico?», domanda retoricamente DT in un post successivo al ritrovamento di Grisù (allarme rientrato, anche quest’emergenza nazionale l’abbiamo risolta, e senza piano Marshall).
Cara DT, avrei molte risposte, da «perché il computer ricomprarlo costa, mentre il gatto ne prendi un altro gratis» in giù, ma non gliele do perché la lobby dei proprietari di animali è suscettibile e aggressiva, e io sono un donnino fragile.
Per allora sarò morta, ma sarà uno spasso quando gli archeologi studieranno quest’epoca e vedranno che eravamo una civiltà (per così dire) che dormiva in lenzuola lavate a novanta gradi e poi stirate, ma faceva senza esitazione salire sui letti cani le cui zampe si erano trascinate sui marciapiedi fino a poco prima.
Ma soprattutto, cara DT, a cosa servono il cinema e la letteratura, Age&Scarpelli e Fruttero&Lucentini, la finzione narrativa e l’inventiva artistica, se poi lei si chiama Daniela Torto? Capirà bene che, se la realtà s’incarica non solo delle trame ma anche dei nomi dei personaggi, a noialtri che ci guadagniamo la mesata con le parole passa un po’ la voglia.