Venerdì 26 marzo il vicepremier del Montenegro Dritan Abazović ha dichiarato che l’Unione europea dovrebbe aiutare il suo paese a ripagare il prestito di 994 milioni di euro contratto con la cinese Exim Bank dal precedente esecutivo, guidato dal Partito Democratico dei Socialisti (Pds) del presidente Milo Đukanović, per la costruzione del tratto montenegrino dell’autostrada Antivari/Bar-Boljare, eseguita dalla cinese China Road and Bridge Corporation (Crbc).
Secondo Abazović, il subentro di Bruxelles permetterebbe a Podgorica di sottrarsi dall’abbraccio di Pechino: «Penso che sia una scelta logica, scambiare un prestito poco conveniente, con un altro più favorevole che il Montenegro potrà onorare più facilmente», ha affermato.
Abazović è il leader di Ura, l’unica forza apertamente europeista tra quelle presenti nel parlamento montenegrino, e la più piccola tra le tre che sostengono l’esecutivo di Zdravko Krivokapić. Ha solo 4 deputati su 81.
Con queste dichiarazioni il giovane politico montenegrino cerca di spingere verso Bruxelles il governo tecnico di cui fa parte, nel tentativo di mettere alle corde le altre due forze della coalizione (il Fronte democratico e il movimento La pace è la nostra nazione), tendenzialmente più vicine a Belgrado e quindi a Mosca.
Giocarsi la carta della minaccia di influenze esterne è una delle tattiche più classiche dei politici balcanici: riescono così ad assicurarsi i fondi e le attenzioni dell’Ue. E Abazović ha il physique du rôle ideale per accreditarsi come l’interlocutore privilegiato di Bruxelles, in un contesto come quello montenegrino dominato da forze filorusse e filocinesi, ma vincolato all’Occidente dall’appartenenza alla Nato e dall’ambizione a entrare nell’Unione.
Nel frangente attuale, inoltre, per la piccola repubblica post-jugoslava si è creata una convergenza naturale tra esigenze di politica interna e diktat di politica estera.
La coalizione che supporta Krivokapić è un’accozzaglia di fazioni agli antipodi su qualunque tema, eccetto uno: fare tabula rasa dell’era Đukanović, estromettendo quei funzionari lealisti che in questi trent’anni si sono insediati nei posti chiave dell’apparato statale. Un motivo che si è rivelato sufficiente per varare, lo scorso 4 dicembre, il primo governo senza il Pds da trent’anni a questa parte. Una volta ripulita l’amministrazione e ostracizzata la claque del presidente, concordano i riottosi alleati di governo, il paese potrà avere una dialettica politica normale. Non è mai successo nella storia del Montenegro indipendente.
Questo tentativo di palingenesi si sposa bene con il nuovo corso della geopolitica mondiale, dove i soci degli Usa sono chiamati a troncare i rapporti con la potenza rivale, la Cina.
È noto che, pur proponendosi come baluardo dell’Occidente contro le quinte colonne filoserbe e filorusse, Đukanović hia spalancato le porte a Pechino, stringendo accordi economici, legami politici e spesso anche relazioni interpersonali, che hanno permesso al Dragone di incistarsi nel piccolo paese adriatico.
La presenza della Cina in Montenegro è effettivamente cresciuta moltissimo nell’ultimo decennio e proprio l’autostrada Antivari/Bar-Boljare è il progetto che più iconicamente incarna questa penetrazione.
Le cifre sono note. Le spese per la costruzione del primo tratto, al momento peraltro molto in ritardo sulla tabella di marcia, sono lievitate in modo imprevisto, portando il costo dell’intero progetto da 800 milioni di euro a 1.3 miliardi di euro. Anche a causa della pandemia, che ha affossato quel comparto turistico da cui il Montenegro estrae oltre il 20% del proprio pil, il debito pubblico è salito al 93% del pil. Un quarto di questo debito è in mano alla Cina.
L’assegnazione dei lavori per l’infrastruttura è avvenuta senza bando di gara e le condizioni contrattuali non sono mai state rese note. Secondo alcune informazioni trapelate ai giornali, in caso di insolvenza la Cina acquisirebbe il diritto di proprietà su alcuni terreni demaniali.
Come osservato da Jovana Marović, direttrice esecutiva del think tank Politikon di Podgorica, la mancanza di trasparenza facilita la stipula di intese poco vantaggiose, di cui nessun governo dovrà mai rendere conto. L’obbligo di pubblicare modalità e cifre di contratti così onerosi per i contribuenti, come il nuovo governo si è impegnato a fare, esporrebbe l’azione della classe dirigente, costringendola a negoziare accordi più vantaggiosi per il proprio paese.
Un fastidio che non pare aver mai assillato gli uomini di Đukanović.
Lo scorso giugno, il governo precedente ha infatti assegnato al consorzio cinese-montenegrino DEC International-Bemax-BB Solar-Permonte anche la ricostruzione dell’impianto termoelettrico di Plevlja – un’operazione da 54 milioni di euro.
Anche grazie a queste attività, nella prima metà del 2020, la Cina è risultato il paese che ha investito di più in Montenegro (70 milioni), davanti a Italia (43.3) e Russia (42.5), stando ai dati diramati dalla Banca centrale nazionale.
Come concluso da un report del Centro per la transizione democratica pubblicato lo scorso mese, nei prossimi anni le insidie fiscali e amministrative derivanti da questa accresciuta dipendenza dalla Cina potrebbero influenzare negativamente l’orientamento geo-strategico del paese e il consolidamento della sua democrazia.
L’anno scorso il think tank americano Freedom House ha classificato il Montenegro come un “regime ibrido”.