Le pale eoliche deturpano la bellezza del paesaggio o sono fonti di energia pulita? Il 5G è l’infrastruttura della modernità e dello sviluppo prossimo o nuova forma d’inquinamento che minaccia la salute? Il ponte sullo Stretto è il volano dello sviluppo del Sud o un regalo alle mafie? La didattica a distanza è sinonimo di catastrofe educativa o la sperimentazione di risorse e strumenti che arricchiscono le opportunità formative?
A molte questioni di questa natura, che si incagliano in aporie ideologiche e inconcludenti, servirebbe forse un altro genere d’interrogativi. Ad esempio: a quali bisogni/valori devono rispondere le scelte? Quali sono i soggetti che intervengono nelle decisioni? Su quali livelli di partecipazione istituzionale e sociale è necessario fondare i nuovi indirizzi?
Prima di rispondere, un paio di considerazioni.
Economia-Cultura-Territorio compongono la triade che sovrasta la “mondità”, termine con cui Martin Heidegger indicava la dimensione esistenziale del mondo, alla quale sottostà la vita degli individui e delle collettività, in modo proprio e permanente.
La triade è un’effettività – naturale antropica – precedente in sé ogni giudizio che distingua il buono dal cattivo, per usare una formula semplice che escluda ogni intenzionalità originaria che non possa essere modificata dall’azione umana nella sua espressione più autentica, vasta, coesa.
Nel Piano Next Generation EU, in chiave di futuro e di trasformazione (transizione ambientale), fin dal nome si propone la triade Economia-Cultura-Territorio, e si enfatizza l’interconnessione dei tre termini attraverso la seconda chiave di lettura, che è la “transizione” verso un ambiente di tipo nuovo: “l’ambiente digitale”.
Molti, dagli analisti agli attori istituzionali, dall’ambito politico a quello economico, sottolineano la possibilità di una svolta per la ripartenza ed il cambiamento del Paese. La prova della pandemia Covid-19, a cui l’Italia è ancora sottoposta da oltre un anno, sta sollecitando la riflessione sul carattere radicale del cambiamento necessario, che vada al di là degli interventi e degli investimenti finanziari, e che riesca ad imprimere una direzione di marcia condivisa e partecipata. Un’occasione da non perdere?
Nonostante il carattere ibrido della composizione del governo Draghi, non vi è dubbio che le strategie e gli indirizzi espressi sin qui siano politici, non tecnici.
L’attenzione, quindi, dovrebbe forse essere posta non tanto (o non solo) sulle mediazioni, partitiche e degli interessi, volte all’accaparramento degli investimenti, quanto sulla necessità di mettere in atto processi partecipativi. Processi partecipativi in grado di esprimere qualcosa di più di un like, autenticamente responsabili delle proprie espressioni, centrati su una dignità di mediazione che non sbandieri vessilli di democrazia ma che sia in grado di alimentare il confronto, estraendone i punti di sintesi per operare il cambiamento.
Nel discorso in Senato per la fiducia al suo nuovo governo, l’ex capo Bce ha parlato di «nuovi modelli di turismo per la crescita sostenibile», ed ha aggiunto che «la ricostruzione dell’Italia dipende anche dalla capacità di guardare al futuro preservando l’eredità umanistica e il patrimonio culturale identitario». Bene: i luoghi e le attività della cultura sono fra quelli da maggior tempo colpiti dalle “chiusure” imposte dall’emergenza pandemica. Nonostante tutto, proprio artisti ed operatori culturali sono stati in grado di reinventare, in questi mesi, forme e sedi finalizzate all’espressione della creatività, a partire dal web.
In tanti settori della cultura, iniziative e pratiche innovative dimostrano che esistono energie, vitalità, progettualità che devono essere liberate ed accolte, anche per ciò che riguarda la generazione di un rapporto inedito fra produzione culturale e fasce di pubblico emergenti (e da far emergere), istituzioni ed imprese culturali, piattaforme digitali e reti sociali, virtuale e reale, centro e periferie.
Le politiche culturali per le generazioni future, quindi, dovrebbero saper funzionalizzare la riscoperta del senso di arte e cultura nel “vissuto” collettivo e degli individui (esperienza di questi mesi); politiche culturali frutto del bisogno autentico di legame, di appartenenza alle comunità, dai borghi alle metropoli. Necessario, perciò, creare condizioni strutturali che stimolino la fruizione culturale di larghe fasce della cittadinanza, muovendone desideri e reali esigenze, affinché il vago senso di appartenenza divenga fattivo, redditizio, pieno, consapevole.
L’apporto di strategie volte all’inclusione sociale, come a correggere diseguaglianze economiche e territoriali di accesso e sviluppo culturale, costituirebbe così una novità, almeno rispetto alle politiche culturali tradizionali, come quelle fiscali, del prezzo, produttive, distributive e di promozione, così come quelle attuali, di ristoro o sostegno, volte a mantenere (e ora purtroppo a recuperare senza innovazioni) i classici standard di produzione e consumo culturale.
Sì, perché proposte come la defiscalizzazione della spesa per la visita dei musei, ad esempio, porta benefici a vantaggio dei target medio-alti di utenza già esistente, ma non serve a far varcare la soglia delle gallerie a visitatori che ancora non sono tali. Il ripristino dei circuiti commerciali del Turismo, oltre a riproporre i noti problemi di sostenibilità per l’affollamento dei visitatori nei centri storici e nei siti convenzionali, continuerebbe a trascurare aree di patrimonio culturale e territori scartati dagli itinerari ufficiali.
In sostanza, il mero ritorno ai pur meritevoli standard precedenti la pandemia non differenzierebbe l’offerta turistico-culturale e, di conseguenza, la decongestione dell’OverTourism al centro del sistema; né avvantaggerebbe, in più, un’offerta culturale e ricettiva, distribuita sui territori lungo il corso dell’anno.
Esempi analoghi – tra l’altro – potrebbero essere applicati ad altri settori culturali: dalla concentrazione distributiva dell’editoria libraria e della promozione della lettura verso il pubblico già esistente, alle varie carenze vigenti nella valorizzazione del patrimonio artistico, culturale e archivistico, spesso celato in depositi e magazzini di istituzioni pubbliche e private. Si veda il caso Sicilia.
Si è recentemente svolto un acceso dibattito sulla cosiddetta “Carta di Catania”, il decreto assessorile della Regione siciliana che prevede la cessione d’uso ai privati, a titolo oneroso e temporaneo, di opere del patrimonio culturale che giacciono nei depositi e magazzini di istituzioni museali, parchi archeologici, archivi e biblioteche, consentendone l’esportazione fuori dall’isola.
Senza entrare nel merito della discussione, va rilevato che il provvedimento (al momento bloccato all’ARS) scaturisce dalla necessità di enfatizzare la funzione della valorizzazione dei beni culturali rispetto a quella della mera tutela e conservazione.
La sovrabbondanza dei beni storico-artistici nel territorio dell’isola supera endemicamente le risorse di bilancio che sarebbero necessarie per inventariarle, esporle, magari digitalizzarle, per metterle a disposizione del pubblico e degli studiosi. Oltre a ciò, il recupero di questo patrimonio, spesso scartato o nascosto, dovrebbe essere parte anche, e in primo luogo, della formazione dell’identità culturale e della cittadinanza attiva delle comunità locali, per esempio attraverso coinvolgimento ed impegno di università e studenti.
La storia della statua della Dea di Morgantina, tornata in Italia nel 2011 dopo quarant’anni, ed esposta al Museo di Aidone, nella provincia di Enna, dopo essere stata trafugata dal sito archeologico e venduta al Paul Getty Museum di Los Angeles, potrebbe essere l’emblema dell’intreccio – difficile da realizzare ma da ricercare sempre – fra cultura e territorio, interpretati anche come contesto economico in cui vivono e progrediscono le persone.
Centrale, per questo concetto di “cultura come restituzione”, il lavoro svolto dal Forum Diseguaglianze e Diversità, coordinato da Fabrizio Barca, intorno alla proposta “Liberare il potenziale strategico delle aree marginalizzate”, nella quale si punta a un forte ruolo dei comuni o di alleanze fra comuni, con la partecipazione degli abitanti, per valorizzare le risorse dei piccoli centri e del loro territorio, migliorarne i servizi fondamentali, creare opportunità per un utilizzo giusto e sostenibile delle tecnologie e dei media digitali. Si tratta di azioni collettive che hanno l’obiettivo di raggiungere il pieno sviluppo degli individui, costruendo consenso ed impegno. Non è poco.
Molti, forse i più, potrebbero obiettare che non è il momento di farsi incantare da chimere irrealizzabili. Muoversi sul campo (locale) è una scelta senza dubbio entusiasmante: ma ha molto a che fare con la “qualità” dell’offerta politica del territorio, che spesso non è incoraggiante. Troppo facile incagliarsi su campanilismi e su rischi ancora peggiori, frutto di arretratezza culturale, clientelismo, collusione col malaffare.
Tutto immutato e tutto immutabile dunque? No, ma a due condizioni: la radicalità con la quale si persegue il cambio di paradigma, e la vigilanza affinché non perdano forza le policy di coesione territoriale più innovative, già avviate con il concorso di università e centri di ricerca (la strategia delle Aree interne, il Piano nazionale Borghi, l’Atlante dei Cammini storici, naturalistici, culturali, religiosi).
La macroarea regionale siciliana presenta caratteristiche che si prestano in modo eccezionale alla progettualità sopra descritta. È possibile pensare ad un futuro dell’isola slegato e, anzi, non fondato sui suoi complessi retaggi storico-culturali?
I caratteri originari della Sicilia sono radicati nel paesaggio unico, geologico e antropologico, nei suoi retaggi storici secolari, dal mondo arcaico-antico alla modernità incompiuta. L’innovativa corrente della Public History fornisce un metodo d’analisi ed iniziativa nel quale la storia diviene risorsa per res publica e comunità, un metodo che scaturisce da autoriflessione e condivisione della memoria collettiva da parte degli stessi abitanti, protagonisti della vita regionale e locale. Belle parole: ma come realizzarle?
Forse esiste già, anche se non ha ancora voce, un terreno fertile di esperienze e di attività di Capacity Building, da scoprire ed incrementare. Ripensare l’eredità culturale oggi, per Next Generation, forse può significare in Sicilia, come nella grande varietà dei contesti in Italia, trasformare i retaggi storico-culturali in output per la bellezza:
– Riqualificazione del patrimonio edilizio e urbano di borghi e città minori
– Rigenerazione eco-agricolo-paesaggistica dell’enogastronomia e dell’artigianato tradizionali
– Esperienze innovative di cittadinanza, parità di genere, ripopolamento e multiculturalismo
– Museo diffuso: fruizione innovativa dei beni culturali e ambientali e reti viarie stradali e virtuali.
Vivono già esperienze, sorte autonomamente nei “luoghi”, che corrispondono al metodo della Public History: progettare il futuro a partire dai retaggi storico-culturali del territorio e con un retroterra consapevole, come è quello dell’Archivio degli Iblei (www.archiviodegliiblei.it), ad esempio.
Parlano bisogni e vocazioni delle comunità, che si evolvono e – grazie ai social media – trovano spontaneamente strumenti partecipativi, che legano abitanti di piccoli centri agli oriundi residenti in Italia o emigrati in altri continenti.
A volte le reti sono formate da gruppi di giovani studenti e professionisti, collegati alle università. Altre iniziative propongono una straordinaria varietà di narrazioni del territorio, che scaturiscono da centri e riviste di studi storico-culturali, attività di social media marketing turistico, capaci di dare visibilità a pezzi di patrimonio privo di collegamenti e servizi, o ancora aziende sperimentali ed operatori dell’agricoltura biologica e dell’agricoltura sociale che connettono le varie esperienze, andando a costituire legami che hanno una forte potenzialità economica e culturale.
Una nuova “mondità” di interconnessioni economiche culturali istituzionali, insomma, è possibile. Next Generation dovrebbe essere la sua casa.