Il paesaggio come bene-culturale è frutto di stratificazioni ed azioni svolte in modo sostanzialmente dialettico. Vive tanto nella sua propria dimensione storica quanto in quella proiettata al futuro; non può esser cristallizzato, uniformato, soggetto com’è ad incessanti trasformazioni fisiche, giuridiche e dell’economia, a quelle della comunità e delle peculiarità dei territori. È cultura, narrazione, riconoscibilità, ma anche bene e soggetto-oggetto giuridico, e come tale risulta centrale nella definizione e nell’evoluzione sociale identitaria, non solo locale. Una complessità interpretativa che si riverbera non più solo su come il paesaggio stesso viene tutelato, ma anche su come esso viene raccontato (rurale, habitat naturalistico, bene e testimonianza storico-culturale, hub turistico) percepito e apprezzato; e solo da lì, poi, valorizzato e protetto.
Ecco che allora oggi più che mai, in un momento storico in cui il paesaggio stesso non ci è mai sembrato così lontano, dobbiamo tenere bene a mente questo: pensare a cosa determini l’atteggiamento delle persone nei confronti del paesaggio, ascoltarne le voci, le interpretazioni, e riflettere attentamente sul suo valore e sulla definizione personale e comune di questo valore.
A provare a metter ordine a tale complessità, in principio, per l’Italia, fu la nostra Carta Costituzionale, all’art. 9: «La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Un tratto giuridico netto, di eccezionale lungimiranza ed innovazione (datato 1947) che, collegando la promozione della cultura e della ricerca alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, «non proclama un principio astratto, ma stabilisce una concreta linea d’azione collegata ai diritti essenziali del cittadino […] diritti che contribuiscono al progresso spirituale della società e allo sviluppo della personalità individuale» (Settis).
In ambito comunitario invece abbiamo la Convenzione Europea del Paesaggio (COE, 2000) a delineare una chiara indicazione sul tema e della sua importanza. Qui esso diviene «elemento chiave del benessere individuale e sociale» costituito essenzialmente dalla e sulla «percezione del territorio che ha chi ci vive o lo frequenta a vario titolo». Una svolta epocale nell’idea stessa di paesaggio, delle sue proprie prerogative di habitat umano come bene complesso e mutevole, legante della comunità, garanzia di cittadinanza e strumento di eguaglianza fra i cittadini, dunque di democrazia.
L’Italia, inoltre, nella ratifica della stessa Convenzione (DL 9 gennaio 2006, n. 14), aggiunge anche che «le persone hanno il diritto di vivere in un paesaggio che risulti loro gradevole». Una svolta nella svolta, che porta con sé inedite prospettive e responsabilità per ciò che concerne non solo la tutela, ma che riguarda anche il miglioramento della qualità percettiva del paesaggio. È infatti «la percezione delle popolazioni, ossia il senso socio-culturale attribuito da esse ai propri luoghi di vita, che segna il passaggio dalla porzione di territorio al paesaggio» (Michela Saragoni).
L’uomo e il suo ambiente sono legati da una interrelazione “circolare”, in una reciproca capacità di influenza e modifica. Un processo di elaborazione culturale e di significati, comuni e personali, non solo come mero processo fisiologico, in cui la sfera emotiva e quella identitaria della società, assieme ai processi di identificazione e senso di appartenenza, assumono una valenza nuova: la percezione sociale è elemento strutturale del paesaggio tanto quanto il paesaggio stesso è elemento strutturale della società.
Perché considerare la qualità del territorio in un’ottica di reciprocità significa, da un lato, che la sua percezione ha (dovrebbe avere) un ruolo fondamentale nella definizione del livello di qualità stessa del paesaggio e, dall’altro, che la qualità del paesaggio ha, a sua volta, capacità di incidenza sulla qualità di vita dell’uomo. Sfortunatamente, però, stando alle ultime analisi BES dell’ISTAT (2018), che riscontrano che «mentre la qualità percepita dei luoghi di vita tende a peggiorare, sempre meno italiani considerano prioritario il problema del degrado del paesaggio», o ancora, guardando alla “fiacca” Giornata internazionale del Paesaggio, tenutasi in questi giorni senza molto entusiasmo, il quadro d’insieme che ci appare è a tinte fosche e costellato di molte questioni ancora aperte, soprattutto riguardo la percezione dell’importanza personale e condivisa del paesaggio.
Come il più blasonato “patrimonio culturale”, anche quello paesaggistico, naturale o urbano, purtroppo paga il fatto di esser percepito ancora troppo spesso come un elemento estraneo al proprio se. E, se considerato, lo è quasi sempre in chiave limitante piuttosto che come un elemento di potenziale sviluppo sociale ed economico. Per invertire questa pericolosa tendenza che spinge all’abbandono ed alla noncuranza, foriere di degrado e lacerazioni, allora occorre che le “politiche del paesaggio”, oggi considerate sempre più strategiche nell’ambito di una governance del territorio sostenibile, mirino a valorizzare il ruolo delle comunità locali nelle dinamiche di gestione e partecipazione attiva di quegli stessi territori, soprattutto nelle nuove generazioni.
Occorre riaffermare una nuova cultura del paesaggio che nasca dalle sue narrazioni, dalle sue voci, per facilitare la conservazione e la diffusione delle singolarità dei luoghi e delle diversità territoriali in generale; capace che esprima i bisogni e valori essenziali di chi di quel territorio ne è rappresentanza e testimonianza viva, per rafforzare il sentimento di appartenenza e di radicamento; che curi i soggetti più sensibili e vulnerabili, con particolare riferimento ai bambini (che erediteranno ciò che noi lasceremo) per ri-costruire le relazioni tradizionalmente esistenti tra società e territorio. Si lavori su questo allora, nelle scuole, nei comuni, nelle università, nelle biblioteche, in ogni presidio culturale del territorio e non solo.
Si lavori per creare una consapevolezza basata su di un principio di sana appartenenza e responsabilità. Non tanto per ottenere un livello della qualità del paesaggio accettabile, gradevole secondo le statistiche, ma piuttosto perché lo sviluppo di sensibilità e consapevolezza diffusa è oggi l’unico vero garante per il raggiungimento di un equilibrio dinamico nello sviluppo tanto di città e territori, quanto di cuori e menti di chi quei territori li vive. Uno sviluppo equo in grado di limitare l’attuale disuguaglianza nella qualità dei tessuti urbani, quanto di ridurre, se non eliminare, l’accrescimento delle disparità sociali, economiche e territoriali. Un valore da ricordare oggi per rilanciarlo con forza domani e farne benzina ad alto potenziale per la ripresa.
Anche perché da più parti e sempre più insistentemente si riaccende la discussione sulla ripresa del turismo, tema legato a doppio filo con lo “sfruttamento” del paesaggio. Un confronto in cui però ancora sfugge che il turismo è anch’esso prima di tutto un fenomeno sociale e culturale (e quindi poi economico) legato alla circolazione delle persone, e questo indipendentemente dal essere un “agglomerato” di servizi; incide su ritmi ed equilibri tanto per i luoghi visitati e che per visitatori stessi; ha un impatto sull’economia ma anche sull’ambiente naturale e quello delle città, sulla popolazione locale.
In questo senso occorre rivedere gli standard statistici esistenti per misurare questo fantomatico turismo su cui tanto si dibatte. Standard che purtroppo ancora si concentrano principalmente solo sulla misurazione dei flussi turistici nei termini del loro “contributo” economico. Quindi, prima di ridurre il tutto alle meccaniche ante covid, occorre prendere coscienza della necessità di lavorare concretamente ad un nuovo concetto multiforme di turismo in cui si intrecciano un uso ottimale delle risorse ambientali locali, o il preservare le risorse naturali e l’autenticità socioculturale delle comunità ospitanti, fino al garantire operazioni economiche ed occupazionali attuabili nel breve e a lungo termine.
In questo senso serve giocoforza individuare nuove metriche e statistiche per misurare proprio la sostenibilità del nuovo turismo in tutte le sue dimensioni – economiche, sociali e ambientali, e questo va fatto fin da ora per definire oggettivamente politiche turistiche davvero innovative per la ripresa, capaci di fare del settore una risorsa sostenibile il cui potenziale contribuisca alla realizzazione di una nuova stagione di sviluppo, e non solo di sfruttamento (del nostro prezioso “petrolio”).