Essere normaleQuelli che chiedono a Biden di prendere esempio da Trump in politica estera

Secondo un’analisi di Politico, il presidente dovrebbe imparare dall’imprevedibilità del suo predecessore per ottenere risultati concreti. Ma secondo il Washington Post, gli Stati Uniti hanno proprio bisogno di prevedibilità per essere più credibili dopo 4 anni di incoerenza e inaffidabilità

(AP Photo/Evan Vucci)

Nell’ultima settimana due importanti giornali americani, Politico e il Washington Post, si sono chiesti verso quale strada può andare la politica estera americana. Secondo Nahal Toosi, che ne scrive su Politico, è probabile che l’Amministrazione Biden abbia un approccio troppo convenzionale agli affari internazionali, e potrebbe trarre qualche utile insegnamento dal comportamento di Donald Trump.

Toose utilizza un esempio per far capire come l’America sia tornata alla “normalità”: il caso delle violenze in Etiopia dove un conflitto in corso tra il governo federale, i suoi alleati e leader regionali ribelli sta facendo migliaia di vittime, centinaia di migliaia di profughi e fa immaginare che ci sia in corso una massiccia campagna di pulizia etnica. In questo contesto cosa fa l’Amministrazione americana?

Ciò che ci si attende da un’Amministrazione americana: «Ha pubblicamente condannato la violenza, il segretario di Stato Antony Blinken ha detto che gli Stati Uniti sono “gravemente preoccupati” per la situazione nella regione del Tigray. Poi ha cercato di coinvolgere i leader nazionali e internazionali, tra cui il primo ministro vincitore del Premio Nobel per la pace in Etiopia, Abiy Ahmed, sollecitando la fine dei combattimenti. Si sta rivolgendo a forum globali, come le Nazioni Unite, per aumentare la pressione politica, aumentando nel contempo gli aiuti umanitari alla zona del disastro. C’è anche la possibilità che l’Amministrazione Biden possa nominare un inviato speciale per il conflitto o imporre sanzioni economiche ai presunti autori. E, naturalmente, gli americani hanno twittato al riguardo, chiedendo “accesso umanitario senza ostacoli” e “indagini indipendenti”».

C’è un problema con questo modo di affrontare eventi come quello in Etiopia, o in Russia, in Myanmar, in Cina, scrive Politico. Non sembra essere molto efficace. Donald Trump ha costituito un problema per l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, specialmente per il suo atteggiamento aggressivo nei confronti degli alleati tradizionali e per l’apertura eguale e contraria verso gli autocrati. 

Ma aveva il pregio di essere imprevedibile e di essere capace di infrangere tabù senza troppi problemi, scrive Politico: «Ha fatto azioni storiche, come incontrare il dittatore nordcoreano Kim Jong Un, e ha preso rischi straordinari, come l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani». Questo ha reso gli americani meno convenzionali probabilmente, e ha fatto storcere il naso a molti studiosi di relazioni internazionali, ma ha reso Washington più efficace.

Biden invece, scrive il sito americano riportando molte considerazioni di analisti esperti in politica estera, «è troppo prevedibile. Alcuni sono convinti che il nuovo team che gestisce la politica estera debba mostrare di essere pronto a prendersi dei rischi in modo inaspettato. In altre parole, alla Casa Bianca serve un po’ di trumpismo». 

Naturalmente l’Amministrazione Biden non è d’accordo con questa interpretazione, come spiega un funzionario interrogato da Politico: «In meno di due mesi, abbiamo compiuto passi chiave in avanti e messo in atto strumenti importanti che ci serviranno nelle settimane, nei mesi e negli anni a venire. Abbiamo risolto tutti i problemi del mondo? No. Ma non ci siamo mai illusi che la maggior parte delle sfide che si sono sviluppate nel corso di anni o decenni sarebbero state eliminate in breve tempo». 

Secondo Daniel Drezner, professore di politica internazionale alla Tufts University, il punto di partenza che guida l’analisi di Politico è sbagliato. Nel suo contributo per il Washington Post, Drezner sostiene che il modo in cui Donald Trump ha affrontato i dossier più importanti per la politica estera americana non è stato così efficace come viene spesso raccontato.

Perché quando si analizza un mandato non bisogna soltanto guardare i risultati che ha avuto a breve termine, ma prendere in considerazione le conseguenze nel lungo periodo: « Un impegno credibile è molto più importante nei negoziati internazionali della capacità di mettere i partner di fronta alla truthful hyperbole, insomma, fare qualcosa di esagerato, che gli altri non si aspettano. ».

Il professore si riferisce alla locuzione inventata da Donald Trump nel suo libro The Art of The Deal, in cui spiega che «Le persone vogliono credere in qualcosa che sia più grande e spettacolare. Io la chiamo iperbole veritiera». 

Drezner continua spiegando che non si tratta soltanto di una questione di stile, ma anche e soprattutto di efficacia. Non è affatto detto che il modo in cui la politica estera americana è stata condotta negli ultimi quattro anni sia stato il migliore.

In altre parole: «La sorpresa tattica ottiene guadagni a breve termine. (Ad esempio, annunciare operazioni informatiche segrete non è una grande idea). Fare azioni prevedibili e poi seguirle, tuttavia, significa che altri paesi possono crederci sulla parola. Questo tipo di fiducia ha molto più peso sulla scena globale dell’atteggiamento da spaccone tenuto da Donald Trump. Rende più credibili sia le minacce che le promesse».

E infatti il Washington Post argomenta la sua posizione citando un dossier molto preciso in cui l’Amministrazione Biden è criticabile: il suo atteggiamento nei confronti del principe saudita, Mohammed bin Salman. Gli Stati Uniti, dopo aver reso pubblico il report della Cia che indica Mbs come principale responsabile dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, hanno deciso «di non punire Mbs, facendo marcia indietro rispetto a quanto promesso».

È questo il problema, essere coerenti con se stessi.

Renzer risponde poi in modo puntuale alla critica di Politico, che accusa Biden di aver trattato varie crisi internazionali in modo tradizionale, non riuscendo a risolverle: «La politica estera non può essere ridotta nelle risposte alle crisi. Ogni nuova Amministrazione deve affrontare un groviglio di dossier di politica estera nelle prime sei settimane del suo mandato, e questo è per definizione complicato». 

In secondo luogo, continua il professore, per quanto possa apparire scontato, la strategia di Biden richiede tempo: «La più grande differenza di politica estera tra Trump e Biden è che il 45 ° presidente voleva sconvolgere il mondo e il 46 ° presidente vuole invece aggiustarlo. Come può dire chiunque abbia avuto a che fare con un bambino che sta imparando a camminare, è più facile e veloce distruggere strutture e iniziative che costruirle».

Insomma, prima di criticare la politica estera di Joe Biden, è necessario dargli qualche mese per sbagliare davvero.

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