Libertà e veritàA differenza dell’America di Biden, l’Europa non può dire ciò che pensa di Putin

Il Cremlino è un pericolo per gli Stati membri, ma né singolarmente né come Unione si riesce a fare granché: è la prova di una sovranità limitata dei 27 Paesi. In questo momento l’unica voce in grado di contrastare un nemico della democrazia globale è quella di Washington

Lapresse

Dire «Putin è un assassino» è una cosa fattualmente vera e indubbia, ma è anche una scelta controversa e rischiosa. Non è come dire: «Oggi piove» quando piove, anche se fotografa un fatto con uguale esattezza, perché ha diverse conseguenze.

È un tema cruciale quello del rapporto della politica con la verità, che è sempre problematico, ma che è anche costitutivo del senso della libertà. «La libertà è la libertà di dire che 2+2 fa 4; garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente», scriveva George Orwell. Quindi a maggior ragione anche dire che un assassino è un assassino.

Nello stesso tempo, limitarsi a professare e dichiarare la verità può avere conseguenze potenzialmente disastrose anche per la causa della libertà e dunque della verità.

Se a dire, nei termini brutali di Joe Biden, «Putin è un assassino» fosse stata ieri Ursula von der Leyen non avrebbe concretamente né difeso la libertà degli europei, né favorito quella dei russi.

In fondo Biden ha detto una cosa che sapeva potersi permettere e la sua scelta, in termini di responsabilità politica, non è così diversa da quella opposta di Ursula von der Leyen, che quella libertà e verità oggi non se la può proprio permettere.

Ciò detto, rimane il fatto che il non poter dire la verità su Putin (e quasi su nessun dossier strategico internazionale) è la prova provata della sovranità limitata europea e della sua minorità strategica, di fronte a una cleptocrazia mafiosa che, dai vertici del Cremlino, tira i fili di una vera internazionale sovranista e organizza una gigantesca centrale di inquinamento della democrazia globale.

La Russia putiniana è un cancro internazionale, reso ancora più eversivo ed espansionistico dalla sua debolezza di Stato fallito, appeso ai proventi della bolletta energetica. Ma solo per l’Europa, cioè in primo luogo per gli Stati europei, dentro e fuori l’Unione, continua a essere un pericolo potenzialmente mortale.

La sfida con la Russia e con le sue derive è la vera sfida strategica che l’Europa ha perduto nel momento in cui pensava di averla vinta, con il crollo del Muro di Berlino, che era una ferita nel cuore del continente, ma anche un suggello della natura mondiale del conflitto tra i blocchi e della comoda irresponsabilità degli alleati di Washington.

L’Europa poteva starsene al riparo dell’ombrello atlantico, senza spendere una lira o un marco per la propria difesa. E continuare a rimuovere la vera questione di vita e di morte delle democrazie del continente: quella della sicurezza e quella della guerra, che è l’altra faccia del diritto e del potere di dire la verità.

Come ha scritto pochi mesi fa Olivier Dupuis, dando conto delle resistenze nei principali Stati membri alla prospettiva dell’istituzione di un esercito comune europeo (comune, non unico; aggiuntivo, non sostitutivo delle forze nazionali), «l’assenza di una politica comune di sicurezza costituisce a breve o medio termine la principale minaccia alla sopravvivenza degli Stati membri contro i nemici esterni e interni».

Ed è una minaccia che si continua a eludere, voltando la testa, ma al prezzo anche di dovere chiudere la bocca.

Il risultato è che, a distanza di trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica, anziché un espansionismo democratico verso Est registriamo un efficientissimo espansionismo nazionalista verso Ovest da parte di un regime che tiene a libro paga politici e giornalisti e che è perfino in grado di dimostrare una qualche forma di soft power, come è avvenuto su quella incredibile vicenda del vaccino che non c’è – Sputnik – e che chiunque in Italia, dal neo-tovarisc Matteo Salvini al vetero-tovarisc Nicola Zingaretti, ha propagandato come la soluzione miracolosa alla penuria di vaccini.

Per cui ieri, per molti giovani e meno giovani europeisti democratici, accanto alla soddisfazione per il ritorno di un presidente americano – non anti americano come il precedente – alla Casa Bianca, c’è stato come un senso di rimpianto, se non di rimorso per come gli Stati europei dopo il 1989 si sono giocati male – anzi malissimo – la partita con le macerie nucleari della Russia post sovietica.

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