Il problema strategicoQualche questione aperta sul futuro di liberaldemocratici e riformisti

Il riformismo italiano non si è mai arreso o tirato indietro, e adesso trova nel panorama politico e istituzionale delle circostanze favorevoli. Il percorso è ancora lungo e appeso ai tanti processi economici e sociali in corso, ma i presupposti ci sono. L’intera galassia ideologica è anche chiamata a superare un limite: il frazionismo ingiustificato

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Ho partecipato alla “Maratona riformista” promossa da Marco Bentivogli (per inciso ho lavorato a lungo con suo padre nella gloriosa Federazione Lavoratori Militari) e sostenuta da Linkiesta. Come ha notato Mario Lavia, sul quotidiano, «nell’incontro tra adulti di ieri, che ha riscosso molto successo, mondi diversi e litigiosi che si richiamano alla stessa radice sono finalmente riusciti a parlarsi». Anche se non è di poco rilievo quanto Lavia stesso ha voluto premettere, ricordando che rimane aperto «il problema strategico (riformismo in un solo partito o riformismo permanente?)».

Si tratta di una questione, a mio avviso, cruciale, ma prematura, perché questa “scelta esistenziale” dipende – accade sempre così in politica – dallo sviluppo che avranno tanti processi in corso: il percorso e gli esiti dell’operazione Draghi sul sistema politico e sulla struttura economico-produttiva del Paese nel contesto di una maggiore integrazione dell’Unione europea; le innovazioni e gli indirizzi che la segreteria di Enrico Letta promuoverà nel Pd (che resta il perno di qualunque rassemblement riformista) con riguardo ad un possibile quadro di alleanze; le caratteristiche della legge elettorale (maggioritaria o proporzionale); i risultati delle prossime elezioni regionali e amministrative; l’emergere sulla scena politica di uno o più “federatori”, di un primus inter pares accettato come tale.

Guai allora a fare il passo più lungo della gamba; nello stesso tempo però occorre tener presente che pure i cammini più lunghi cominciano sempre con un primo passo. Tanto più che le circostanze sono favorevoli come ha sottolineato, in una delle relazioni d’apertura, Antonio Barbano. Insomma, se non ora quando? La galassia che si riconosce nei gruppi liberaldemocratici-riformisti non si è mai arresa dopo la sconfitta del 2018; non si è mai concessa alle mode, anche quando faceva comodo spernacchiare almeno un po’ l’Unione europea; non ha mai condiviso lo slogan degli opportunisti «Europa sì ma non così».

Siamo stati considerati gli avvocati delle cause perse, i corresponsabili delle politiche del rigore (di cui era ormai acquisita la presunta insensatezza). Tanto che oggi una politica che non esita a vivere di ripetuti scostamenti di bilancio, sul piano interno, e del “soccorso rosso” del Bce sui mercati finanziari, sembra essere considerata normale, anziché dettata dall’impotenza e dalla disperazione in cui la pandemia ha confinato l’economia e le società.

Nel discorso di fine d’anno, persino il Presidente Sergio Mattarella diede l’impressione di considerare corretta l’attuale linea di condotta della Ue piuttosto che quella precedente, quando affermò che: «Alla crisi finanziaria di un decennio or sono l’Europa rispose senza solidarietà e senza una visione chiara del proprio futuro. Gli interessi economici prevalsero. Vecchi canoni politici ed economici mostrarono tutta la loro inadeguatezza».

E come contrappunto: «Ora le scelte dell’Unione europea – aggiunse – poggiano su basi nuove. L’Italia è stata protagonista in questo cambiamento». In verità le politiche a cui si riferiva Mattarella non erano «senza solidarietà e senza una visione chiara del futuro», bensì quelle necessarie nella situazione allora data, quando sulla crisi finanziaria si innescò quella ben più grave degli Stati e del loro debito sovrano dopo il crack della Grecia (che venne salvata – fu solidarietà questa? – dall’intervento in moneta sonante dell’Unione europea, Italia compresa).

Il nostro Paese aveva uno spread ben superiore a 500 punti base e piazzava i suoi titoli a tassi medi intorno al 6-7 per cento. In quei frangenti non esistevano alternative alla politica del rigore (che pure consentì al nostro Paese scostamenti di bilancio per 29 miliardi). Pertanto, se una politica dettata da una grave emergenza dovesse diventare la ’’buona politica’’, ciò potrebbe accadere per un solo motivo: dall’emergenza si è stati travolti.

Nell’interessante dibattito durante la Maratona ho avvertito preoccupazioni nei confronti di una politica più attenta ai meriti che ai bisogni; nonché l’attribuzione ad eccessi di neoliberismo (da non ripetere) della responsabilità dell’offensiva populista (come se la sua ritirata attuale dipendesse dall’allargamento dei cordoni della borsa). Non dobbiamo compiere gli errori del passato. Chi scrive ha vissuto in prima persona l’esperienza di Scelta Civica. A parte la fine precoce di quel partito, io mi sono convinto che fosse sbagliato anche il taglio della campagna elettorale. La linea era quella di non sollevare questioni scomode e di trattare l’esperienza compiuta dal “governo dei tecnici” come una dolorosa necessità, dalla quale si sarebbe usciti il prima possibile.

Ciò che era divisivo veniva messo da parte, ad iniziare dalla riforma Fornero (anche negli anni seguenti l’ex ministro è stata spesso lasciata sola a difendersi dagli attacchi ingenerosi e ingiusti). A noi tocca di rivendicare di non avere mai mollato. E oggi possiamo contare su di una fase più o meno lunga (probabilmente fino al termine della legislatura) durante la quale il governo Draghi detterà l’agenda della politica, grazie agli impegni a medio-lunga scadenza connessi al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Certo, dobbiamo superare un limite: il frazionismo ingiustificato, innanzi tutto.

Prendo, si parva licet, la mia esperienza. Sono iscritto a +Europa, ho aderito ad Azione, a Base Italia, ai Repubblicani, sono componente del gruppo di lavoro presieduto da Carlo Cottarelli incaricato di formulare il Programma Italia; sono tra i fondatori di Riformismo e libertà, componente del Comitato scientifico della Fondazione Anna Kuliscioff e senior fellow di IBL. Ovviamente non sono né cacciatore di poltron(cin)e, né indispensabile per “fare l’impresa”; ma rappresento la prova che le iniziative sono tante e tutte stanno all’interno dello stesso perimetro di condivisibilità.

Come diceva Leo Longanesi in Italia non si farà mai la rivoluzione perché ci conosciamo tutti. Mi pare evidente che vi sia uno «spreco di consenso» (copyright Paolo Onofri). L’ultima raccomandazione: se prevarrà l’opzione del «socialismo in un solo Paese» (secondo la metafora di Lavia) si eviti con cura – il rischio si intravede – di costituire un “esercito di generali”; per combattere e vincere la guerre sono indispensabili anche gli ufficiali, i sottoufficiali e soprattutto i soldati.

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