Primaria o secondariaScuole aperte o chiuse: il principio dei contagi non deve essere l’unico

Le decisioni prese in passato sulla scuola hanno seguito motivazioni basate su dati poco affidabili. Distinguere tra primaria e secondaria è giusto, ma va fatto secondo ottiche diverse dal rischio di diffusione del virus

Cecilia Fabiano/ LaPresse

A seguito del decreto-legge 12 marzo 2021, n. 29, gran parte dell’Italia è diventata zona rossa, con l’effetto apparentemente inevitabile che la d.a.d. (didattica a distanza) torna ad essere la modalità principale, se non l’unica, di erogazione della didattica, peraltro senza distinzione alcuna tra scuola primaria e secondaria di primo grado, e scuola secondaria di secondo grado.

Questa distinzione, però, sia per il ruolo che ha assunto in diversi contesti regionali, sia per quello che probabilmente continuerà a svolgere in futuro, rimane di particolare interesse; così come lo sono le ragioni effettive che dovrebbero sottenderla ma che vengono per lo più oscurate, o comunque assorbite, da presunte motivazioni di natura tecnico-scientifica.

Sin dall’inizio della pandemia la scelta di comprimere il diritto all’istruzione a fronte della emergenza epidemiologica, e dunque della connessa necessità di considerare prioritario il diritto alla salute, è stata considerata tutt’altro che pacifica, tanto da generare un acceso dibattitto pubblico oltreché una giurisprudenza amministrativa che più di una volta ha sindacato le scelte discrezionali dell’amministrazione in questa materia.

Le origini del dibattitto sono note e vanno riportate alla complessità di una situazione in cui si discorre di due diritti parimenti importanti, parimenti riferiti a valori costituzionalmente protetti, ma tra loro per il momento contrapposti. E così se per un verso l’articolo 32 della Costituzione stabilisce che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», per altro verso l’articolo 34 riconosce il diritto all’istruzione, specificando che «la scuola è aperta a tutti» e che l’istruzione inferiore «è obbligatoria e gratuita».

La questione allora è provare a capire se il bilanciamento tra i diversi interessi in gioco operato dal decisore politico (a livello sia nazionale sia regionale), con tutto ciò che ne è seguito sul piano del godimento del diritto all’istruzione, sia stato realizzato in modo corretto; il che significa, entro quei limiti di proporzionalità e ragionevolezza che dovrebbero sempre ispirare l’azione amministrativa.

Ebbene, la strada che si è scelto di seguire ha condotto per lo più ad affidarsi a dati scientifici spesso discutibili, ossia ad agire in un’ottica precauzionale e a valutare, in chiave prognostica, il minor-impatto contagio (per usare le parole del Consiglio di Stato, decreto del Presidente del 10 novembre 2020) dovuto alla sospensione dell’attività didattica in presenza.

È su questo presupposto, ad esempio, che diverse ordinanze regionali, nel corso degli ultimi mesi, hanno finito per distinguere scuola primaria e secondaria di primo grado da un lato, e scuola secondaria di secondo grado dall’altro lato: per gli studenti delle superiori, infatti, si è ritenuto che il rientro a scuola avrebbe accresciuto le possibilità di assembramento.

D’altra parte, è sempre sulla base della diversificazione tra i vari cicli di istruzione che molti amministratori ritengono di aver assolto al dovere di contemperare le diverse esigenze in gioco.

Più precisamente, la distinzione è condivisibile in linea di principio e forse avrebbe dovuto essere mantenuta anche nella situazione attuale, ma sulla base di ragioni che non possono esaurirsi nei dati scientifici, per quanto certi, e nell’esigenza di adottare un approccio precauzionale.

La correttezza di un bilanciamento va valutata non solo per il risultato a cui conduce, ma anche e soprattutto per l’apparato motivazionale che lo sorregge. E quello che ha giustificato fino ad oggi la distinzione in esame è debole o comunque non sufficientemente convincente per renderla accettabile agli occhi di tutti.

Il riconoscimento o di converso il sacrificio di un diritto fondamentale non è mai una operazione giusta o sbagliata di per sé, perché non può prescindere dalle caratteristiche proprie di chi ne è il destinatario.

Nel caso del diritto all’istruzione che sia così è addirittura lapalissiano, nel senso che la sua compressione è più o meno ragionevole a seconda del ciclo di istruzione a cui si riferisce, e dunque, in altre parole, dell’età dello studente che dovrebbe beneficarne: così, la compressione sarà meno ragionevole per gli studenti della scuola primaria e secondaria di primo grado, e più ragionevole (anche se non per questo meno problematica) per gli studenti delle scuole superiori.

Ad offrire una chiara chiave di lettura in questo senso, oltre alla nostra Costituzione che contiene – lo si è visto – un riferimento espresso alla sola istruzione inferiore, vi sono diversi atti e accordi internazionali.

Basti pensare all’articolo 13 del Patto delle Nazioni Unite del 1966 sui diritti economici, sociali e culturali che dedica due disposizioni differenti rispettivamente all’istruzione primaria, che deve essere obbligatoria e accessibile gratuitamente a tutti, e all’istruzione secondaria, che invece è un tipico diritto a realizzazione progressiva, nel senso che «deve essere resa generale e accessibile a tutti con ogni mezzo a ciò idoneo, e in particolare mediante l’instaurazione progressiva dell’istruzione gratuita».

La differenza di peso che in questo modo viene attribuita ai due cicli d’istruzione, inferiore e superiore, non è casuale ma dipende dalla funzione particolarmente pregnante che svolge la prima e che non può non rilevare nell’ambito di una operazione di bilanciamento tra interessi contrapposti.

Detto diversamente – mutuando le parole dell’articolo 29 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989 – è anzitutto l’educazione primaria di uno studente che serve a favorirne lo sviluppo delle facoltà e delle attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità, e a prepararlo «ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace [e] di tolleranza».

E allora, per tornare ai provvedimenti amministrativi che per mesi hanno distinto tra cicli di istruzione solo alla luce di giudizi prognostici in termini di contagio, è forse il caso di ricordare che la legittimità di un provvedimento dipende anche dalla percezione che ne avrà la società nel suo complesso, e dunque dal suo grado di accettabilità.

In questa prospettiva, giustificarne l’adozione sulla base delle caratteristiche proprie dei suoi destinatari significa aprirsi agli orientamenti valutativi provenienti dai diversi settori sociali e riversarli nel processo di concretizzazione del diritto, secondo un modello per così dire “partecipativo”.

I dati scientifici, al contrario, possono aiutare un processo del genere, ma non saranno mai in grado di giustificarlo in via esclusiva.

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