Unire i riformisti. Vasto programma si potrebbe dire. Anche più vasto di quello leggendariamente attribuito al Generale De Gaulle di mandare a morte tutti i cretini. Una parte dei problemi sono affrontati nell’appello che ha dato vita alla maratona riformista del 21 marzo e che Linkiesta ha pubblicato.
Ne richiamo due su tutti: 1) la necessità di superare i personalismi dei leader delle singole forze politiche e aree culturali interne o esterne ai partiti; 2) la leadership, appunto, che oggi ancora non c’è. Va da sé che risolto il secondo punto, anche il primo si risolverà quasi da solo; a patto però che lo si risolva con la politica e non con il logoramento e la delegittimazione reciproca dei potenziali competitor.
Cosa abbiamo scritto nell’appello? «E il leader? Una vera leadership quando c’è, emerge: senza predeterminazioni, dannose proprio al processo di costruire una squadra forte e coesa. Tutte le leadership importanti si sono forgiate sul campo».
Non sembri un modo per cambiare discorso, non è una risposta formale ma sostanziale. Mi spiego, scusandomene, ricorrendo a un aneddoto personale.
Ricordate quando (i protagonisti erano più o meno tutti nel Partito democratico) veniva chiesto a Matteo Renzi di farsi da parte perché altrimenti nessuna altra leadership poteva emergere? Intervenni in Assemblea nazionale per dire che se un leader per emergere ha bisogno che un altro si faccia da parte semplicemente non è un leader.
Tesi che la cronaca si è incaricata di avvalorare quando Renzi ha davvero tolto il disturbo e il Partito democratico a trazione Nicola Zingaretti ha scelto come riferimento l’ennesimo papa straniero, un avvocato, ex presidente del consiglio, autore dei decreti Salvini, che rivendica il suo essere populista e che – dulcis in fundo – ora viene candidato alla leadership di un altro partito.
Il secondo nodo di politics lo potremmo riassumere nel confronto dialettico tra «offertisti» e «domandisti». Io mi considero un «domandista», nel senso che penso ci sia una domanda per una politica autenticamente liberale, democratica, europeista e che si richiama al riformismo socialista (molto corretto il richiamo a Federico Caffè, fatto sul Riformista da Marco Bentivogli).
Ecco perché mi piace ribaltare il ragionamento che vuole che sia stata la nascita del governo Draghi a creare lo spazio politico per i cambiamenti in atto nel centrosinistra e nel centrodestra (la svolta «europeista» di Salvini e il deragliamento di Zingaretti, per stare ai partiti maggiori): la mia opinione è che sia stata l’esistenza della domanda «non populista» e la consapevolezza di quanto non sia marginale a determinare quel cambiamento di offerta politica, del quale il governo Draghi è la naturale conseguenza.
Oltre ovviamente alla sapiente conduzione di alcuni dei protagonisti (dal Presidente Mattarella, fino al più anonimo peone che ha resistito alle sirene tabacciane, passando per Renzi, Giorgetti, Carfagna e la pattuglia liberal di Più Europa).
Ma se unire i riformisti è un vasto programma, nel provare a realizzarlo è necessario chiederci per fare cosa e come, ragionare quindi non solo in termini di politics ma anche di policy. Prendiamo ad esempio la scuola che è da sempre una delle cartine al tornasole più significative per il tasso di conservatorismo della politica e della società italiane.
Una persona onesta intellettualmente non può non notare la distanza siderale tra le parole del presidente Mario Draghi nel giorno in cui ha chiesto la fiducia («dobbiamo recuperare quanto perso per colpa delle chiusure forzate delle nostre scuole») e quelle del Ministro Bianchi da Fabio Fazio qualche giorno fa («la scuola non ha mai chiuso»).
Una persona seria non può non notare che dopo aver organizzato un concorso riservato e semplificato per i docenti con tre anni di servizio che mai hanno passato un concorso ordinario (non sempre per responsabilità loro, ma nessuno ha proposto di distinguerli da chi concorsi ne ha fatti in quantità) si ragiona, come anticipato dal Sole 24 Ore di lunedì, di recuperare i bocciati.
Così però non solo si rischia di abbassare la qualità dei docenti di ruolo, ma si tolgono anche posti al concorso ordinario (indetto e sospeso causa Covid), che è l’unica strada concessa a un neolaureato che sogna di insegnare e che riguarda più di 400mila candidati.
Una persona che ha a cuore il futuro del Paese non può non vedere la necessità di intervenire presto e bene sulla cosiddetta filiera professionalizzante, sia secondaria che terziaria. Una persona attenta non può non osservare che la notazione riferita alla Pubblica amministrazione di Boeri e Perotti su Repubblica la scorsa settimana («digitalizzare non basta, serve personale con nuove competenze») andrebbe applicata anche alla scuola e al suo personale docente e non docente.
Gli esempi potrebbero essere tanti altri, ma il senso credo si sia capito: sono punti sui quali dovrebbe essere facile capire da che parte deve stare un riformista e a quale parte guarda l’elettore al quale ci rivolgiamo.
Le forze politiche che guardano a questo campo sono pronti a dimostrare coi fatti di essere interlocutori credibili per l’elettorato riformista in cerca di casa? Ho detto della scuola, principale infrastruttura sociale del Paese, perché di questo mi occupo.
Su lavoro, fisco, contrasto alle diseguaglianze, forma di governo e quanto si riterrà prioritario altri parleranno con maggiore competenza di me. Sono però convinto che il passo che dobbiamo decidere di fare tutti insieme, in qualsiasi forza ci riconosciamo, sia quello di stanare, sfidare e quando ci riusciamo sconfiggere i conservatorismi di ogni sorta.
Vasto programma, unire i riformisti per sconfiggere i conservatori ovunque acquartierati, ma, per parafrasare un rivoluzionario della metà del secolo scorso, una lunga marcia comincia sempre dal primo passo.
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Venerdì 2 aprile alle ore 11 il dibattito LinkiestaTalks, con Bentivogli, Bonino, Calenda, Gori, Scalfarotto, Tinagli.