Domenica 21 marzo il ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi è stato ospite del programma di Fabio Fazio Che tempo che fa. Ha fatto alcune dichiarazioni che permettono di chiarire meglio il suo modo di affrontare l’emergenza scuola nella pandemia, un po’ meno la sua visione generale, rimasta nell’ombra data l’urgenza degli altri temi. Il Consiglio dei ministri aveva da poco approvato il cosiddetto Decreto sostegni, che prevede interventi anche a favore della scuola.
Questa uscita televisiva del ministro Bianchi non è stata molto entusiasmante, a dire il vero. Il tema che può sembrare più mediatico, cioè l’idea di una scuola «affettuosa», è in realtà la cosa migliore. È vero che la scuola italiana ha bisogno di diventare meno rigida, più attenta al benessere degli studenti, sia nelle relazioni che nella quotidianità: su questo bisogna lavorare molto. Se scuola «affettuosa» vuol dire questo, ben venga.
Va detto che i docenti italiani, nella maggior parte dei casi, fanno già molto in questa direzione: il problema è però far saltare le rigidità del sistema, che non possono essere aggirate dalla buona volontà dei singoli. Tra queste rigidità, soprattutto nella scuola secondaria: il numero eccessivo di discipline separate, fin dalla prima media; il tempo scolastico scandito per ore isolate; l’assenza, spesso, di spazi comuni; il peso eccessivo delle valutazioni; ecc. Sappiamo dal suo libro Nello specchio della scuola (Bologna, il Mulino 2020), che il ministro su queste cose ha delle idee interessanti, aspettiamo che maturino.
Più deludenti gli altri aspetti dell’intervista.
Primo problema: Bianchi ha ribadito che «la scuola non ha mai chiuso», a fronte delle domande sulle chiusure in quasi tutta Italia. Ora, ripetere in ogni occasione questo ritornello è francamente irritante: è vero che, da quando è iniziata la didattica a distanza (dad) la scuola come istituzione ha lavorato sempre. Ed è vero che centinaia di migliaia di docenti si sono impegnati per questo. Ma dire solo che la scuola non ha chiuso significa non mettersi nei panni delle famiglie, che si ritrovano i figli a casa, con i mille problemi della gestione della dad spesso anche per bambini piccoli, e della difficile conciliazione con il lavoro dei genitori, fuori o dentro casa. Il problema della chiusura della scuola in presenza esiste e non è con i giochi di parole che lo si risolve.
Secondo problema: il ministro Bianchi ha affermato che in questo anno scolastico la dad «è migliorata», cioè ha imparato a venire incontro alle esigenze degli studenti in un quadro didattico rivoluzionato dall’insegnamento a distanza. Questa affermazione è troppo ottimistica. Uno studio dell’Indire ha mostrato che nel trimestre finale del 2019-20 le pratiche prevalenti in dad sono state le lezioni frontali e le interrogazioni tradizionali; non si vede come questo quadro possa essere cambiato radicalmente a partire da ottobre 2020, quando sono ricominciate le chiusure. Inoltre, chi lavora nelle scuole, se si guarda intorno, vede molta didattica tradizionale travasata in dad; e la vedono anche le famiglie. Anche qui, pensare che la dad funzioni al meglio, e non parlare per esempio di quanti si sono persi, o del disagio di tutti, anche di quelli che non si sono persi, ci porta fuori strada.
Infine, il Decreto sostegni sulla scuola. Questo decreto inizia a intervenire sul recupero degli apprendimenti causato dalle lunghe interruzioni della didattica in presenza, ed è solo una prima tappa di un percorso che vuole essere più lungo. Vengono stanziati 150 milioni per promuovere attività di formazione che si possono svolgere durante tutta l’estate, dopo la fine delle lezioni, non solo fino all’inizio del prossimo anno scolastico, ma fino al 31 dicembre: si possono fare corsi di recupero e consolidamento degli apprendimenti, ma anche «attività per il recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti» (art. 31, comma 6 del Decreto sostegni). Queste attività possono essere promosse e ospitate dalle scuole, e svolte da docenti delle stesse o da operatori del terzo settore, su base volontaria e con progetti mirati.
Tutto questo va molto bene, ma ci sono due grosse obiezioni.
La prima è che, se queste attività servono a recuperare quanto gli studenti italiani hanno perso in apprendimento e socialità a causa del lungo ricorso alla dad, la risposta è inadeguata. È inadeguata perché essendo su base volontaria rischiamo di perdere proprio quegli studenti che dalla scuola si allontanano già in condizioni normali: perché dovrebbero voler frequentare queste attività? È inadeguata perché è una forma di assistenzialismo che si rivolge ai più deboli separandoli dagli altri; quelli che invece a scuola sono andati bene, nonostante la dad, se ne vanno in vacanza. È inadeguata perché dipende troppo dall’iniziativa e dalla virtuosità delle singole scuole e dei singoli enti locali, e abbiamo già visto con il progetto “Scuole aperte” che si rischia un fallimento.
Ma c’è una seconda obiezione, più profonda. Il modello proposto con questo intervento è quello di una scuola di laboratori, senza voti. Quindi una scuola più aperta, creativa e meno ossessivamente valutativa di quella attuale. Bene. Anzi molto bene, è un ottimo modello di scuola. Ma perché una scuola di laboratori e senza voti non si può fare durante l’anno scolastico ordinario? Perché non si fa niente per rendere la nostra scuola, soprattutto secondaria, un luogo in cui si fanno molte cose e non si passa il tempo solo a raccogliere voti e invece, quando si vuole curare il male, si lascia l’ordinario così com’è e si fanno i progetti per un mondo parallelo, straordinario, bello, che però, alla fine, non è la vera scuola?
Perché non siamo capaci di salvare la missione di apprendimento propria della scuola inserendo nel suo corpo sclerotizzato la vitalità di questa organizzazione più aperta? La risposta è nel punto sollevato prima: la logica assistenziale, da ospedale dei poveri, che è sempre sottesa ai nostri interventi contro la dispersione scolastica e la povertà educativa. Il sistema espelle i deboli, e poi facciamo gli ospedali da campo. I progetti per il recupero degli apprendimenti sono innovativi e aperti, ma non toccano lo status quo, relegando l’innovazione alla non-scuola.
La proposta di lavorare sulla rimodulazione del calendario scolastico, invece, ci avrebbe costretti a pensare una didattica ordinaria più «affettuosa», meno arcigna e giudicante, perché avremmo dovuto farla per tutti e in tempi normali. Non nei tempi della vacanza della vera scuola.