Forse sbaglio a credere che ci sia stato un momento in cui ho detto: potrei farlo, lo faccio. Ma se devo indagarne uno, vedo l’uomo in giacca e cravatta offrire il suo trench alla donna con le braccia scoperte perché si ripari dal freddo.
La terrazza dell’hotel si affaccia su piazza di Pietra, siamo sospesi sopra le colonne corinzie del tempio illuminato dal basso. Sul tavolo ci sono due calici vuoti e una scodella di olive. Ciò che credevo di essere, una moglie leale, una professionista che aveva chiesto all’uomo di incontrarsi lì per lavoro, scompare dietro un gesto come tanti. Sciocco, dolcissimo. Tremavo e lui ha fatto in modo che smettessi.
Del nostro primo bacio in ascensore vorrei ricordare di più, ma è stato veloce – cinque piani scendono giù in un soffio.
Anni prima ero salita sul tetto dello stesso albergo insieme alla persona che avrei sposato. È stato mio marito, in una giornata in cui il sole si nascondeva dietro una coltre spessa e bianca, a farmi conoscere quella loggia in mezzo ai resti sciupati della città.
Se dovessi scrivere di lui – ma questo non è un libro su mio marito –, comincerei col dire che si scoraggia facilmente. Chi lo conosce non lo sospetterebbe mai: ho scelto un uomo dominato dall’angoscia; che sua madre smetta di amarlo perché le ha risposto male o non le ha risposto affatto; che durante la notte la borsa crolli lasciandolo di colpo senza un soldo; che al lavoro venga rimpiazzato da un uomo più giovane e più in gamba.
In quei giorni la disperazione indurisce i suoi tratti, quasi la pelle fosse argilla essiccata sul viso. Mi chiede allora di cenare sul divano, non ha la forza di stare con la schiena dritta, vuole che dorma accanto a lui, ma che stia attenta a non muovermi durante la notte. Quando va bene, l’angoscia sparisce in pochi istanti e torna a essere l’uomo che amo.
Eccoci, prima di sera, nel salotto al piano di sopra. La luce si diffonde con una nuova intensità e sembra quasi che dentro casa sia entrato qualcosa di vivo. I raggi bagnano la chaise-longue dove è sdraiato, schiariscono la pelle e fanno brillare il biondo dei suoi capelli. Ho la sensazione di trovarmi al centro di, non saprei dire cosa, il set di un film, la scena di una romanzo? Riesco a vedermi dall’esterno.
Una donna seduta. Le gambe nude e le mani sui fianchi, il viso indorato dal riflesso dell’ultimo sole. Sono appena le sei. La donna prende un sorso di vino, poi un altro; a pranzo ha mangiato solo uno yogurt, le gira la testa. Quando il sole scende dietro ai palazzi la stoffa a fiori della poltrona appare per quello che è, non seta ma raso da quattro soldi. Sinceramente, cosa ci fa lì? Vuole parlargli del figlio che ancora non hanno.
Cosa ci faccio qui, da dove inizio? Ciò che ignoro è come riuscirà a chiudere l’argomento. Bruscamente, facendo in modo che sia io, soltanto io, a sentirmi intempestiva.
La donna non alza lo sguardo, anzi, evita quello di lui. Manda giù il vino. Se ne versa un altro po’. Adesso sa cosa vorrebbe, è un desiderio che coltiva da tempo, ma che in questo istante le appare chiaro come non lo era mai stato. Vorrebbe che lui le chiedesse: hai paura? E: cosa ti spa-venta? Semplicemente questo. Vorrebbe parlargli della rabbia che pensava più al sicuro dentro di sé, ma che è solo assopita, pronta a insorgere senza preavviso. Riprendere il discorso, anche se gli ha promesso che non lo avrebbe fatto. Gli dirà: «Ho fissato una visita, c’è una ginecologa di cui tutti parlano specializzata nel congelamento degli ovuli.»
Ho giurato che non sarà certo la mancanza di un figlio a mettere in crisi il nostro rapporto. Neanche lo voglio un figlio. O almeno, non posso dire di desiderarlo; ma ho il terrore che un giorno finirò per sentirne la mancanza. Quel giorno, imputerò la colpa a lui. Mio marito.
Deve pensare al lavoro, alla difesa dei diritti umani e delle organizzazioni non governative, scalare i vertici dello studio legale in cui fa tardi la sera. Il lavoro è il centro della sua vita di uomo. Per tutto il resto c’è tempo. «Non ora» ripete, «non puoi parlarmi di un figlio ogni santo giorno.»
Ecco. Il vino avrebbe dovuto calmarmi e invece sono su di giri. Come incantata da qualcosa, le dita sopra al calice vuoto, vengo distratta dalla pioggia improvvisa. C’è tempo per avere un figlio – anche se lui ha più tempo di me, tutto il tempo che vuole. L’acqua fiocca sulla piazza e inzuppa ogni cosa, le buste d’immondizia agli angoli dei palazzi, le cicche fra le fughe sghembe dei sampietrini, le foglie secche e gli insetti morti che trascina al centro. Verso il tombino.
È in questo momento che mi accorgo dei due, un ragazzo e una ragazza nell’appartamento di fronte. Quello che pochi mesi fa era un balcone, ora è una piccola veranda che fa da salotto.
Sono sulla soglia, belli entrambi ed entrambi esitanti, come a prendere confidenza con quella stanza di vetro. Si stanno scambiando uno sguardo pieno di tenerezza.
Non parlano ma è come se lo facessero, la credenza nuova la mettiamo lì, amore dove preferisci, lanciando nell’aria l’intuizione di una promessa a cui restare fedeli: due ragazzi e sterminate scelte d’ora in avanti, la prima casa, lo stesso letto, gioie e tribolazioni. Fin quando non saranno cresciuti abbastanza da convincersi che ogni giuramento nasconde uno spergiuro.
Glielo prometto: «Non parliamone più», e resto con gli occhi su di loro, oltre la finestra. Mio marito risponde che dico sempre la stessa cosa ma alla fine non resisto e ricomincio a parlarne. È vero.
Mentre assisto al fluire silenzioso del contatto fra i due dentro la veranda sospesa in un cielo nuvoloso, mi ritrovo a pensare che forse per loro non sarà così, che quei ragazzi avranno un matrimonio felice e andranno avanti sfiorati a ogni passo dalla fortuna.
da “Sempre soli con qualcuno”, di Annalisa De Simone, Marsilio, 2021, pagine 160, euro 16