In un momento cruciale della lotta alla pandemia si è manifestata una nuova (e invero non del tutto inaspettata) variante connessa al virus: quella giudiziaria. Una prima avvisaglia si è avuta con una singolare sentenza emessa dal tribunale (monocratico) di Reggio Emilia: il giudice Dario De Luca ha assolto dall’accusa di falso ideologico una coppia sorpresa fuori dalla propria abitazione con una autocertificazione menzognera, ritenendo incostituzionali i Dpcm emessi dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Secondo il magistrato reggiano, i provvedimenti governativi risultano illegittimi poiché l’articolo 13 della Costituzione stabilisce che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo su «…atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge» e che «un Dpcm (nella specie Dpcm 8 marzo 2020 – Covid-19) non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge».
La decisione, rispettabilissima, sorprende però, e non poco: non solo per la sostanza (i poteri eccezionali sono stati conferiti al presidente del Consiglio da una norma primaria, l’articolo 2 del decreto legge n.6/20 convertito con legge 5 marzo 2020 n. 13), quanto, soprattutto, per il metodo utilizzato dal giudice per “cancellare” la disposizione governativa: da solo e senza interpellare preventivamente chi in tema di incostituzionalità ha diritto all’ultima parola, e cioè la Corte costituzionale. Così facendo, il giudice reggiano non ha tenuto conto della costante giurisprudenza, sia delle Sezioni unite sia della Corte costituzionale, che impone al giudice – al cospetto di una norma reputata incostituzionale – di rivolgersi al “giudice delle leggi”, salvo non applicarla ugualmente, ma con una interpretazione conforme ai principi costituzionali.
Il Tribunale di Reggio ha invece optato per una terza strada: sostituirsi ai giudici costituzionali, direttamente disapplicando la norma sospettata di incostituzionalità, sulla base di quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con riferimento però alle sole violazioni delle norme del Trattato europeo e non a quelle della Costituzione.
E sì che sul punto ci sarebbe da dire: se, in effetti, la Carta costituzionale non prevede espressamente, oltre l’emergenza bellica, uno “stato di eccezione” derogatorio dei diritti fondamentali, l’articolo 15 della Convenzione europea dei diritti umani (fonte di diritto sovraordinata alla stessa Costituzione) stabilisce invece che «in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda». La stessa Corte costituzionale, peraltro, ha sempre ribadito che, quando sono in contrasto diritti fondamentali (per esempio, nel caso dell’Ilva il diritto alla salute, come oggi, e quello al lavoro), la soluzione va trovata nell’equo bilanciamento senza che un principio possa sacrificare totalmente un altro.
Difficile sostenere, insomma, che il diritto a una passeggiatina in centro città possa prevalere su quello alla salute collettiva senza tenere conto che l’articolo 13 della Costituzione, pure richiamato dal giudice emiliano, fa riferimento a misure cautelari penali ben più restrittive e afflittive della prescrizione amministrativa in discussione. Per capire la differenza basta la semplice constatazione che un detenuto agli arresti domiciliari non può certo uscire dal carcere con un’autocertificazione! Senza dimenticare come, nel frattempo, la stessa Corte costituzionale ha espressamente – e in maniera inequivoca – preso posizione sulla piena legittimità dei Dpcm nella gestione della pandemia, come si può leggere nelle motivazioni della sentenza n. 37 del 2021 (in particolare ai paragrafi 9 e 10 del Considerato in diritto), depositata pochi giorni fa nel conflitto di attribuzioni relativo a una legge della Regione Val d’Aosta che disapplicava uno dei primi provvedimenti governativi sullo svolgimento delle attività lavorative.
Al di là della questione strettamente tecnico-giuridica (che schiude tuttavia non pochi risvolti politici), la sentenza del tribunale reggiano illustra benissimo una delle grandi incognite che il governo Draghi si troverà davanti nella sua futura azione: il controllo di legalità della magistratura. Ne è un ulteriore esempio la questione degli effetti collaterali dei vaccini, esplosa nelle ultime ore con la vicenda di un lotto sospetto di fiale AstraZeneca. Ancorché manchi alcuna evidenza scientifica sulla connessione tra vaccino e decessi, l’eco della notizia ha avuto l’effetto di aumentare esponenzialmente ansia e incertezza nell’opinione pubblica, già duramente provata. Si sono aperte le prime inchieste ed è un dato che il governo farà bene a valutare in un Paese in cui il sistema-Giustizia ha avuto più volte effetti paralizzanti sull’azione amministrativa e ha prodotto in passato sentenze – assai discusse e discutibili sul piano scientifico – che hanno ritenuto provato il legame tra vaccini e malattie come l’autismo.
Uno dei rischi più seri riguarda un eccesso di penalizzazione della classe medica, stavolta sul terreno della somministrazione dei vaccini; il rischio è che indagini affrettate, con annessa la solita grancassa mediatica, possano pregiudicare la piena realizzazione dello stesso piano vaccinale. Lo sta mettendo in luce, in queste ore, Cristiano Cupelli, professore di Diritto penale all’Università di Roma Tor Vergata, uno dei migliori studiosi della materia, sottolineando come i pericoli principali siano legati alla cosidetta “medicina difensiva” dell’emergenza pandemica nella fase della profilassi vaccinale.
In buona sostanza, si sostiene, i medici, preoccupati dal rischio di indagini connesse a eventi avversi sostanzialmente imprevedibili (e a loro dunque, allo stato, non imputabili), accompagnato dal frastuono mediatico e da un eccesso di allarmismo, ben potrebbero scegliere, nei pochi minuti che hanno a disposizione per la l’anamnesi che precede la somministrazione del vaccino, di astenersi o di rimandare a casa chi sta per vaccinarsi ed è indeciso o non è in grado di ricostruire e valutare adeguatamente il proprio quadro clinico (molti anziani, ad esempio, ma non solo).
L’effetto drammatico e paradossale, prosegue Cupelli, sarebbe quello di arrestare il piano vaccinale, rallentando la via di uscita dall’attuale situazione, vanificando pure il condivisibile proposito, contenuto nel nuovo piano vaccinale diffuso sabato scorso, di ampliare la platea dei vaccinatori (coinvolgendo un numero ancora crescente di medici di medicina generale, odontoiatri, specializzandi e medici convenzionati ambulatoriali).
Quale soluzione? Per il professor Cupelli torna di attualità quanto già proposto nello scorso mese di marzo, a inizio pandemia e con l’avvisaglia di numerosi procedimenti penali a carico della classe medica: «Una norma che limiti la responsabilità alla sola colpa grave e che, nel definirla, dia un peso decisivo al fattore contestuale; un intervento di natura sostanziale, volto a offrire alla magistratura i necessari strumenti per escludere il rilievo penale di determinate condotte e operare più agevolmente – dopo – sul piano processuale».
A tal fine, la norma che lo studioso propone propone «dovrebbe muoversi all’interno di un ben definito campo di applicazione funzionalmente connesso alla gestione del rischio Covid-19 e temporalmente limitato al perdurare dell’emergenza sanitaria (dichiarata con Dpcm) e tenere conto di alcune direttrici di fondo, tra le quali, in particolare, quella di limitare la responsabilità penale degli operatori sanitari alle sole ipotesi di colpa grave, di qualunque matrice colposa (oltre all’imperizia, dunque, anche condotte connotate da negligenza e imprudenza), e di introdurre una definizione di colpa grave, nella quale siano elencati gli indici in base ai quali operare l’accertamento (sottraendolo così all’assoluta discrezionalità giurisprudenziale), dando peso rilevante ai fattori “contestuali” ed “emergenziali” (tra i quali, il numero di pazienti contemporaneamente coinvolti, gli standard organizzativi della singola struttura in rapporto alla gestione dello specifico rischio emergenziale, l’eventuale eterogeneità della prestazione rispetto alla specializzazione del singolo operatore, il tempo a disposizione per assumere decisioni o agire, l’oscurità del quadro patologico o il grado di atipicità, eccezionalità o novità della situazione e dunque la necessità di fare ricorso a somministrazioni off label)».
Certo, una tale soluzione rischia di suscitare l’infamante accusa dei soliti Travaglio & C. di uno “scudo penale” per sottrarre i colpevoli alla giustizia; in realtà non sarebbe uno scudo, ma una norma di garanzia per tutelare chi – in questa fase critica – sta adoperandosi, in condizioni critiche e di estrema difficoltà, a vantaggio della salute pubblica. E, in ogni caso, sarebbe preferibile al rischio del fallimento del piano vaccinale o di ulteriori ritardi, che causerebbero altre vittime di cui certo non risponderebbero i magistrati protagonisti di inchieste senza fondamento.
A ben riflettere, aggiungiamo noi, sarebbe anche una grande occasione per Mario Draghi di affermare, dopo molto tempo, un principio rivoluzionario per l’Italia: l’autonomia della politica giudiziaria dai giudici.