Effetto TamagotchiTutti i rischi di ricorrere alla tecnologia per accudire i figli

Strumenti come telefoni e tablet non sono neutri, ricorda Francesco Pira in “Figli delle app” (FrancoAngeli), ma a volte i genitori lo dimenticano. Non è vero che i cosiddetti nativi digitali comprendano appieno il mondo in cui sono immersi per il solo fatto di esservi nati

Di Daniel Cheung, da Unsplash

I bambini sin dalla culla sono messi in contatto con la tecnologia; spopolano su Internet i video di piccolissimi in grado di maneggiare con destrezza tablet e smartphone e di genitori orgogliosi che mostrano le abilità dei propri figli.

E proprio questo è il nodo della questione che resta ancora da sciogliere e che accompagna la trasformazione della società in società mediatizzata: consideriamo erroneamente la tecnologia come un fattore neutrale e diamo per scontato che i “nativi digitali” comprendano appieno il mondo in cui sono immersi per il solo fatto di esservi nati.

La tecnologia invece non è neutra, le applicazioni e i servizi a essa collegati sono sviluppati da ingegneri ed esperti di marketing, hanno certamente finalità positive ed hanno migliorato per molti aspetti la qualità delle nostre vite.

Ma allo stesso tempo sono il prodotto delle grandi multinazionali dell’intrattenimento e della comunicazione e sono tesi a fidelizzare e incentivare il consumo mediale delle persone, tra queste, bambini e adolescenti ricoprono un ruolo centrale perché stimolano il consumo degli adulti e perché sono trend-setter dei consumi familiari.

Le vite degli individui sono sempre più regolate da Facebook, Google, Twitter, Youtube, sempre connessi, con un sistema di relazioni costruito attraverso i social media, guidati dalle funzionalità sviluppate all’interno di queste interfacce tecnologiche, che sono più o meno fruibili in funzione del supporto di cui si dispone. E ciò apre su un’altra questione: le opportunità di accesso alle tecnologie non sono uguali per tutti, si rileva un marcato digital divide che propone in modo evidente il tema delle diseguaglianze. Jenkins a tale proposito sostiene che:

Parlare di “nativi digitali” ci aiuta a riconoscere e rispettare i nuovi tipi di apprendimento e di espressione culturale emersi da una generazione cresciuta insieme ai computer e alla rete. Eppure, parlare di “nativi digitali” può anche mascherare i diversi gradi di accesso e di familiarità dei giovani con le tecnologie emergenti. Parlare di “nativi digitali” rende anche più difficile per noi prestare attenzione al divario digitale, in termini di chi ha accesso alle diverse piattaforme tecniche, e al divario di partecipazione, in termini di chi ha accesso a determinate abilità e competenze o determinate esperienze culturali o identità sociali. Parlare dei giovani come di “nativi digitali” implica che esista un mondo condiviso da tutti questi giovani e un insieme di conoscenze che tutti padroneggiano, piuttosto che vedere il mondo online come incerto e poco familiare per tutti noi (traduzione a cura dell’autore).

Le statistiche mostrano una capillare diffusione dei dispositivi mobili; ormai quasi il cento per cento della popolazione possiede uno smartphone o un tablet, i bambini entrano in possesso di un dispositivo mobile a partire dai cinque/sei anni ma hanno già utilizzato in modo quasi continuativo i dispositivi dei propri genitori.

Dispositivi e applicativi concepiti per rendere l’utilizzo quotidiano il più semplice possibile, ma questo significa che l’utilizzo è guidato dalla tecnologia e che l’aspetto di ricerca ed esplorazione si muove attraverso i canali che le app disegnano sui dispositivi (Pira, 2018). Partendo da questa constatazione diviene evidente come la questione dell’accesso alle informazioni e alla qualità delle stesse apra al tema dell’instaurarsi di processi di disinformazione e costruzione alterata dell’opinione pubblica.

E così, per riprendere il concetto esposto sopra, la tecnologia diventa “accudente”, come spiega Turkle (2017), il tempo che le concediamo trasforma la dimensione stessa del tempo, ma a questo si aggiunge il fatto che gli individui ritengono che vi possa essere uno scambio equo tra ciò che la tecnologia acquisisce, il potere dell’algoritmo indagato da Parisier (2013), e ciò che si ottiene in cambio. Turkle (2017, p. XXVII) cita un esempio, quello della nuova versione della Barbie ideata dalla Mattel che nel 2015 diventata una bambola robotica che “dialoga” con la bambina, mostrando una similempatia, ma soprattutto raccoglie una mole significativa di dati che vengono registrati e resi disponibili per i genitori in un cloud, che però appartiene alla Mattel.

A questo si aggiunga che la bambola robot guida il gioco, annullando la parte creativa e introspettiva della bambina.

Ecco che si va verso l’annullamento dei percorsi autonomi di costruzione della vita interiore dei bambini, che invece si adattano ai percorsi che la tecnologia costruisce e non il contrario.

È del tutto evidente che esistono una serie di elementi critici di cui sono responsabili gli adulti, a cui va il controllo e il ruolo di guida, dovendo per primi comprendere l’impatto delle tecnologie e il loro utilizzo come strumento a supporto della crescita dei bambini.

Eppure sempre Turkle, nelle evidenze delle sue ricerche e sperimentazioni condotte su bambini e genitori all’epoca del boom del Tamagochi, (definito “killer application”15), un dispositivo sempre acceso, mostrava come questi videogiochi innescassero dinamiche che alteravano la relazione genitori-figli, con i primi che si occupavano degli oggetti dei secondi, come nel caso del Tamagotchi, appunto, per evitare che “il piccolo” morisse.

Esempi di genitori spazzaneve in erba, con uno scambio continuo di ruoli che genera indebolimento, fragilizzazione nei rapporti e incapacità di gestire l’errore. Anche gli esperimenti condotti in Giappone da un gruppo di ricercatori sull’interazione tra robot, androidi e bambini mostra come si inneschino dinamiche che modificano in modo profondo i processi di costruzione identitaria e il rapporto con la realtà e la sua comprensione.

Alcune considerazioni finali sugli esiti della sperimentazione anche con prototipi non ancora ben sviluppati aprono a una seria riflessione:

I bambini hanno mostrato una tendenza ad adattarsi gradualmente all’androide, anche entro l’interazione a breve termine di soli due giorni. Ciò suggerisce che se i bambini fossero in contatto con gli androidi sin dal loro primo stadio di sviluppo, i loro sentimenti di paura potrebbero diminuire, proprio come le funzioni percettive dei bambini si sintonizzano su stimoli frequenti (Kuhl, Tsao e Liu 2003; Pascalis, Haan e Nelson 2002). I cartoni animati sono un tipico esempio di questa tendenza. Sebbene i tratti del viso o del corpo dei personaggi dei cartoni animati siano esagerati e notevolmente diversi dai veri umani, la sensazione d’inquietudine svanisce quando ci si concentra sulla storia. Dopo un po’, non ci si sente più strani nel vedere topi e anatre parlanti che camminano per la Disney (traduzione a cura dell’autore).

Stiamo entrando nell’era della robotica, il rapporto uomo-macchina si sta trasformando in modo profondo. Non abbiamo ancora compreso le dinamiche e le loro conseguenze, lasciare che la tecnologia si sostituisca all’uomo anche nelle funzioni primarie, come l’accudimento dei bambini, rappresenta un grave rischio.

da “Figli delle app. Le nuove generazioni digital-popolari e social-dipendenti”, di Francesco Pira, FrancoAngeli editore, 2021, pagine 112, euro 18