Afghanistan e IraqL’America non è stata capace di combattere due guerre, così le ha perse entrambe

Un conflitto durato vent’anni, il più lungo della storia degli Stati Uniti, si chiuderà il prossimo 11 settembre. La decisione del presidente Biden non è estemporanea, come scrive l’Atlantic: è conseguenza di convinzione formatasi dopo aver visto in prima persona il fallimento della politica americana sul territorio

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Vent’anni. È il tempo che sarà trascorso dall’attacco di al-Qaeda alle Torri Gemelle al giorno in cui le truppe americane avranno lasciato l’Afghanistan. Il prossimo 11 settembre è stato scelto dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden come data simbolica per terminare la guerra più lunga della sua storia.

A quel punto si aprirà uno scenario totalmente nuovo per gli afgani, che dovranno costruire il loro futuro con tutte le difficoltà di uno Stato martoriato da anni di guerra e di conflitti interni.

Le probabilità che l’Afghanistan torni alla sanguinosa anarchia degli anni ’90 sono più o meno le stesse di vederlo gettare le basi per creare almeno una parvenza di normalità.

Il vicepresidente Amrullah Saleh ha detto, recentemente, che «il destino del Paese non dipende solo dall’esercito degli Stati Uniti». Facendo capire che il ritiro delle truppe americane non dovrebbe significare il ritiro del sostegno di Washington a una leadership che – pur con tutti i suoi difetti –è il governo più efficace che l’Afghanistan ha avuto negli ultimi cinquant’anni.

«Il punto è che gli Stati Uniti hanno una sorta di debito morale nei confronti delle migliaia di afgani che hanno rischiato la vita al servizio del personale militare e civile americano, e a loro dovrebbe essere offerta la possibilità di emigrare se lo desiderano. Poi si dovrebbe pensare a cosa riserverà il futuro all’Afghanistan».

Lo dice Jonah Blank in una lunga analisi pubblicata sull’Atlantic dal titolo quanto mai esplicito: “Il peccato originale della guerra in Afghanistan”. Che per l’autore è tanto ovvio quanto controintuitivo: il peccato originale della guerra in Afghanistan è stato andare in guerra in Iraq. «Per capire la decisione di andarsene, bisogna capire la decisione di entrare in quel Paese, e come quella scelta sia stata rapidamente minata dall’invasione dell’Iraq». Facile col senno di poi, ma analizzare i propri errori è fondamentale per commetterne meno in futuro.

Nel suo articolo, Blank ritiene che il presidente Biden sia uno degli attori principali di questa storia, non solo perché ora è alla Casa Bianca. Ma perché il suo pensiero sul tema è stato forgiato da due decenni di vita politica a Washington in cui ha vissuto in prima persona tutte le fasi del conflitto.

L’autore ripercorre gli eventi dall’11 settembre in poi: «Nel settembre 2001, quando Joe Biden era il presidente della commissione per le relazioni estere del Senato, io ero il consigliere politico per quella parte di Asia che include l’Afghanistan. Alle 9 del mattino dell’11 settembre, ero certo che dietro gli attacchi ci fosse al-Qaeda (che aveva sede in Afghanistan), ma che saremmo finiti comunque a invadere l’Iraq».

Nel 2001 l’intero mondo militare americano non voleva invadere l’Afghanistan: voleva invadere l’Iraq. I neocon – come i funzionari del Pentagono Paul Wolfowitz e Doug Feith – avevano una grande visione di rifare il Paese a immagine dell’America. I paleoconservatori – come il vicepresidente Dick Cheney e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld – volevano cacciare Saddam Hussein, installare un fantoccio flessibile e quindi scoraggiare qualsiasi altro aspirante avversario. Entrambi i campi hanno quindi ritenuto l’Afghanistan come una distrazione rispetto all’evento principale.

Biden non apparteneva a nessuno dei due campi, anche se è stato favorevole all’intervento anche in Iraq: «La sua decisione di sostenere l’entrata in Afghanistan e lo sviluppo del suo pensiero mentre la guerra andava avanti forniscono importanti indizi su come gestirà le questioni militari in futuro», si legge sull’Atlantic.

La decisione che si trovarono a prendere i politici dopo l’attacco alle Torri Gemelle era niente più niente meno di una risposta a un attacco sul proprio territorio: non fare nulla non era un’opzione.

Allo stesso modo, però, la risposta militare doveva avere i contorni piuttosto chiari: una serie di attacchi aerei non avrebbe prodotto l’effetto sperato, non contro una leadership di al-Qaeda già sparpagliata e nascosta, e gli stessi talebani non avevano obiettivi particolarmente sensibili da bombardare.

Biden era tra i fautori di un attacco con truppe di terra: il 22 ottobre di quell’anno tenne un discorso al Senato in cui insisteva sul fatto che gli obiettivi degli Stati Uniti – sradicare al-Qaeda e aiutare a stabilire un governo amico successore dei talebani – richiedessero truppe di terra, ma un contingente ben superiore rispetto al piccolo numero di forze speciali già presenti.

«L’attuale presidente espresse preoccupazione per una campagna combattuta da 30mila piedi d’altezza, che secondo lui avrebbe ucciso molti civili senza raggiungere i suoi obiettivi: avrebbe fatto sembrare gli Stati Uniti un “bullo high-tech”, e potenzialmente avrebbe inimicato i musulmani di tutto il mondo. I membri del Congresso repubblicano hanno criticato Biden, ma la sua previsione si è dimostrata accurata. Il tonnellaggio di munizioni sganciato sull’Afghanistan non è mai stato conteggiato con precisione, ma solo nel 2019 sono piovute 7.423 bombe», scrive Blank.

Il punto è che anche la visione di Biden era viziata da alcuni problemi tipici della politica americana: nemmeno lui immaginava la costruzione di un’identità nazionale afgana, una prospettiva futura per il Paese. Lui stesso aveva detto al Senato: «Non stiamo parlando di trasformare Kandahar in Parigi».

Biden fu il primo leader politico a proporre un impegno di un miliardo di dollari di aiuti alla ricostruzione. Una cifra che può sembrare alta, ma gli Stati Uniti negli ultimi vent’anni hanno speso quasi mille volte di più nel conflitto in Afghanistan.

Tutto sommato l’approccio di Biden era orientato al futuro ma non particolarmente ambizioso. Chiedeva un dispiegamento di truppe sufficiente a schiacciare al-Qaeda e impedire ai talebani di tornare al potere prima che potesse essere stabilito un successore. Chiedeva aiuti sufficienti ad aiutare un popolo devastato a rimettersi in piedi dopo troppe sofferenze, e chiedeva che ci fosse uno sforzo multilaterale in questa direzione.

«Questo approccio – scrive Blank sull’Atlantic – ha funzionato: per circa due anni dopo l’attacco ai talebani, la nazione sembrava andare verso un miglioramento. Certamente non si trattava di una nuova età dell’oro, ma sembrava poteva essere un buon inizio». Allora cosa è cambiato dopo il 2002?

«In una parola, l’Iraq».

L’attenzione dell’amministrazione Bush iniziò a spostarsi in poche settimane dalla cacciata dei talebani ai piani per l’invasione dell’Iraq, che divennero presto prioritari.

Quando le truppe statunitensi entrarono in Iraq nel 2003, l’Afghanistan era già un rammarico per l’amministrazione Bush, che iniziò a trascurare quel dossier. Così talebani hanno avuto la possibilità di raggrupparsi al confine in Pakistan e tornare presto all’offensiva. Osama bin Laden e il resto della leadership di al-Qaeda, dopo essere sfuggiti alla rete a strascico americana a Tora Bora, erano comodamente sistemati nelle vicinanze del Paese.

Senza un sostegno efficace da parte degli Stati Uniti durante questo periodo chiave di transizione, qualunque esperimento politico-sociale in Afghanistan aveva poche possibilità di successo. Tante cose sono andate storte negli anni successivi e gli Stati Uniti hanno molte colpe.

«Biden ha raggiunto il limite della sopportazione per quella cattiva gestione durante un viaggio in cui l’ho accompagnato, nel gennaio 2009. Durante una tappa nella provincia di Kunar ha visto la stessa situazione che aveva visto in basi simili l’anno prima, come se fosse tutto fermo: lì ha concluso che non aveva senso continuare a ripetere gli stessi errori negli anni a venire»

Oggi che le decisioni hanno per vertice il presidente Biden e il segretario di Stato Antony Blinken – che è diventato direttore del personale di Biden nel Comitato per le relazioni estere circa un anno dopo la visita del 2002 e da allora ha contribuito a plasmare il suo pensiero sull’Afghanistan – le cose possono cambiare.

Se forniscono fondi sufficienti, supervisione e pressione diplomatica su tutti i vicini – spesso troppo presenti – dell’Afghanistan, Biden e Blinken potrebbero aiutare il governo del presidente Ashraf Ghani a superare le sue sfide con maggiore successo di quanto si possa pensare. Con un po ’di concentrazione e impegno, quando Biden lascerà l’incarico potrebbe esserci una nuova speranza anche in Afghanistan.

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