Non ho memoria per i nomi, con poche eccezioni. Non so nessun nome di marito o figlio o fratello di amica, con una sola eccezione. La sorella strafiga d’un’amica, che una decina d’anni fa venne intervistata da un giornale di moda. Le chiesero quale fosse il suo abito preferito, e lei rispose: «anything Lanvin». È l’unica parente di cui sia in grado di chiedere notizie senza sbagliarle identità: come sta anything Lanvin?
Erano, quelli di purché-sia-Lanvin, gli anni di Alber Elbaz, che è morto sabato a 59 anni – perché la vita è stronza e i geni muoiono sempre troppo presto e i mediocri campano tantissimo – e che non era più lo stilista di Lanvin da sei anni – perché la vita è stronza e le proprietarie delle case di moda sono sceme.
Alber Elbaz era abituato a essere licenziato, gli era successo un po’ ovunque, da Yves Saint-Laurent a Krizia. Non saprei dire perché: oltre a essere un genio, dicono tutti fosse una persona deliziosa (come già era accaduto con Karl Lagerfeld, devo essere l’unica a non avere una conversazione con lui da riferire o una foto da instagrammare; però ho interi armadi di roba disegnata da Elbaz, e di Lagerfeld possiedo solo il libro della sua dieta).
Quando il periodo purché-sia-Lanvin era cominciato da non molto, Hadley Freeman era andata a intervistarlo per il Guardian, e lui le aveva detto che i suoi amici non ne potevano più di sentirgli dire che presto tutto sarebbe finito, che non l’avrebbe più voluto nessuno; quando l’avevano licenziato da Saint-Laurent, le aveva raccontato, pensava nessuno gli avrebbe più risposto al telefono.
Alber Elbaz faceva vestiti che non richiedevano di tirar dentro la pancia. Non dico adesso, che si era inventato questa AZ Factory che si piccava di fare abiti anche per le ciccione (scusate: curvy), e perdipiù falsando le taglie (la XL mi sta grande, a me che sono la Moby Dick delle clienti: dillo, Alber, che mi vuoi lusingare).
Alber Elbaz faceva vestiti accoglienti da prima. Da quando, appunto, cominciammo a riempire gli armadi di anything Alber. Erano così belle le sue sete, così meravigliosi i suoi colori, così come stare nude le sue comodità da sera, che non mi accorgevo mai di quanto mi stessero male finché non mi ci vedevo in foto. Capitava meno spesso di quanto accadrebbe ora (fino a che non siamo diventati tutti tossicodipendenti di Instagram, si andava a cena per chiacchierare, mica per fotografarsi), ma le volte in cui accadeva inorridivo: chi è quella balena?
(A proposito di come si cenava prima: nell’ultima sua intervista che ho letto, sul Corriere, Elbaz diceva «Oggi ci sono i like, ma io voglio i love»).
Nell’estate d’undici anni fa, mi misi in testa di scrivere un parallelismo tra una festa veneziana e il black and white ball, quello che aveva dato Truman Capote nel secolo precedente. Forse è perché Elbaz era un po’ il sosia di Capote (altro che le famiglie felici: sono gli uomini col senso del bello, che si somigliano tutti), che ci andai vestita Lanvin. O forse era perché eravamo nel pieno fulgore dell’epoca purché-sia-Lanvin. Fatto sta che ero andata alla festa con un fotografo incaricato di scattare Augusto Minzolini e Valeria Marini, Claudio Santamaria e Delfina Delettrez (là, dove c’era l’erba, il black and white ball, Mia Farrow e Frank Sinatra). Fatto sta che il fotografo, sul motoscafo del ritorno, fece un paio di scatti che poi impietosamente mi mandò. Mancava solo spruzzassi dalla schiena: una balena in azzurro.
Ma il punto d’azzurro era così favolosissimo, e la seta così setosissima, che neanche per un attimo pensai di buttare quel vestito e gli altri suoi omologhi, e di sostituirli con uno di quei Roland Mouret che ti fanno effetto contenitivo e ti appiattiscono dove devono e ti danno una forma anche se non ce l’hai: io volevo un vestito che mi piacesse toccare, mica sembrare una modella (che poi, vi svelo un segreto: non c’è Mouret che basti). I vestiti che stanno bene addosso sono noiosissimi: vuoi mettere quelli belli? I vestiti che devi esser figa per metterteli sono faticosissimi: vuoi mettere quelli dentro i quali puoi inchiattirti? Ho certi Lanvin dentro ai quali ho cambiato cinque taglie senza che stringessero mai.
Nell’autunno d’undici anni fa, misi la sveglia alle cinque per andare in san Babila (scusate la locuzione milanesista) a fare la fila fuori da H&M; Alber aveva disegnato una collezione per loro, e le sete non sarebbero state setose come quelle del vero Lanvin, ma se anything Lanvin dev’essere, anything: anche i cugini squattrinati. Una tizia per cui lavoravo all’epoca mi deve ancora i 149 euro d’un trench che le presi: grazie, Alber, che hai fatto una collezione così economica che, anche se anticipi il costo per una scroccona di quelle che per undici anni ti dicono «ora vado al bancomat», non finisci come gli imprenditori in bancarotta perché sono in credito con qualche cattivo pagatore.
(I guanti in san Babila erano già finiti, me li sono fatti comprare da un’altra amica, una che ha fatto la fila all’H&M di Tel Aviv, la città dov’era cresciuto Elbaz. Me li ha comprati e poi se li è tenuti, la stronza).
Nell’autunno di sei anni fa, quando lo mandarono via da Lanvin, corsi su Yoox come avevo fatto nell’inverno di cinque anni prima, quello in cui si era ammazzato Alexander McQueen. Chi li vuole, i loro vestiti non disegnati più da loro: fammi comprare tutto quel che trovo delle ultime collezioni.
Se me l’aveste chiesto qualche mese fa, avrei detto che per me Alber Elbaz era morto in quell’autunno, quando avevo razziato tutto il mercato nero dei suoi Lanvin come dopo un decesso.
Ma poi si è inventato questi pigiami coi disegni, che sono bellissimi e mi stanno malissimo ed è come se fosse di nuovo l’inizio del secolo. L’altra sera indossavo i suoi ultimi pantaloni, e la persona con cui ero a cena mi guardava come chi sta pensando «non so come dirle che la fanno particolarmente balena», e io ho detto «non capisci niente, sono bellissimi», ma d’altra parte era un tizio che non somigliava affatto a Truman Capote, cosa vuoi che sapesse.
Ma poi Alber è morto davvero, e quindi il mio unico momento allegro di quest’anno di miseria e malinconia, quei pantaloni sprassolati e un poco scemi, è diventato un gesto d’addio. E quindi ora serve un nuovo nomignolo, un nuovo periodo, una nuova istanza. Anything vintage, forse. Quella scappatoia che una decina d’anni fa Elbaz liquidò così: «Di ognuna di quelle giacche anni Settanta che si sono viste sulle passerelle, potrei dire da quale mercatino delle pulci sono state prese e copiate». Che screanzato, a morire e lasciarci con creatori di vestiti senza senso dell’umore.