C’è un’assenza che pesa, quest’anno, al Festival di Sanremo. Non mi riferisco a Morgan, a Leo Gassmann, a Marcella Bella o altri grandi esclusi della musica leggera, ma a Renato Dulbecco. Sì, proprio lui, il premio Nobel per la medicina che nel febbraio del 1999 salì sul palco dell’Ariston a fianco di Fabio Fazio e di Laetitia Casta, e tra una canzone e l’altra parlava amabilmente di cellule e di virus, invitando gli italiani a credere nella scienza.
Nell’edizione dell’era Covid uno come Dulbecco non poteva mancare. Non dico in presenza (impossibile, ha lasciato questo mondo nove anni fa), ma in forma virtuale, in Dad, come siamo ormai abituati a fare tutti: del resto su Zoom vi sfido a distinguere un vivo da un defunto o da un ologramma.
Intendiamoci, Amadeus, Barbara Palombelli e Simona Ventura vanno benissimo per il recovery, e pur non rientrando a rigore nella Next Generation sono ecosostenibili e anche parecchio resilienti. Ma lasciatemi dire che in quanto fascia debole in ansia da vaccino, avrei molto gradito un ritorno sulla scena di Dulbecco.
Poteva essere il Draghi della medicina, l’unico per autorevolezza in grado di riconciliare Bassetti e Galli, Crisanti e Zangrillo. Di dire una parola definitiva sulle varianti inglese e brasiliana. Di sedare le guerre tra Pfizer e Astra Zeneca, tra sostenitori del monodose e del richiamo. E di seppellire con il suo sorriso olimpico le fesserie sulle mutazioni genetiche, il 5G e i microchip di Bill Gates.
Se preferite, per dirla con Zingaretti, poteva diventare una via di mezzo tra Draghi e Barbara D’Urso, «uno che porta la voce della scienza vicino alle persone».
Perché Renato Dulbecco è stato il prototipo dello scienziato-pop, il papà di tutti i virologi che oggi affollano i salotti tv. Un divulgatore per vocazione. Quando gli proposi di scrivere un libro insieme, nel 1988, erano in pochi a conoscerlo. Il Nobel lo aveva preso nell’ormai lontano ’75, e la fama della sua amica Rita Levi Montalcini, premiata nell’87, lo aveva totalmente offuscato.
Il collega Valerio Riva, che era un fine letterato ma non capiva nulla di scienza, mi sfotteva: «Stai ancora dulbeccando?». E quando uscì da Sperling & Kupfer Ingegneri della vita, un recensore mi paragonò all’uomo-scimmia, uno che scriveva sotto dettatura senza capire.
Undici anni dopo, la scelta di Fazio di portare il Nobel a Sanremo fu accolta con scetticismo. Pare che Lamberto Sposini, allora al Tg1, l’avesse presa come una fake news, uno scherzo. E invece fu record di ascolti.
Nel giro di pochi giorni, Dulbecco era diventato popolare come Alessandro Del Piero. Il suo garbo, la sua geniale modestia, avevano conquistato milioni di telespettatori. Qualcuno lo paragonò a Mr. Magoo, un buffo personaggio dei cartoni animati, come lui miope e calvo, ma simpatico a tutti. L’esatto opposto degli arcigni guardiani del lockdown.
Anche perché allora, nell’inverno del 1999, l’unico virus che infastidiva gli italiani era quello dell’influenza australiana: tre giorni di febbre, quattro di riposo, e via.
Certo non era un santo o un monaco trappista, il professor Dulbecco. Non era andato a lavorare a Cuba, ma al Salk Institute di La Jolla, fondato dal padre del vaccino antipolio. Con i proventi del Nobel si era comprato una villa con terrazzo panoramico sulle scogliere della California. Credeva nell’importanza dei brevetti e metteva il suo genio al servizio di Big Pharma. Ma merita a pieno titolo un posto nel Panteon dei benemeriti dell’umanità, almeno quanto Madre Teresa di Calcutta: le sue scoperte hanno contribuito a salvare migliaia di vite.
E proprio quest’anno cade il ventennale della sua creatura più ambita e più amata, il Progetto Genoma. Il 15 febbraio 2001 venivano pubblicati in contemporanea su Science e Nature, le due più prestigiose riviste scientifiche del mondo, i risultati del sequenziamento completo del genoma umano, i tre miliardi di lettere che compongono il nostro Dna.
Un’impresa titanica, paragonabile allo sbarco sulla luna (mi perdoni l’onorevole Sibilia) a cui Dulbecco aveva dedicato l’ultimo tratto del suo cammino terreno. Così la descriveva nel libro del 1988: «Siamo alla vigilia di una rivoluzione copernicana nel campo della medicina. Archiviati molti dei tradizionali metodi di cura, ribalteremo completamente il nostro approccio alle malattie, le nostre tecniche di diagnosi e di terapia. Ogni alterazione, ereditaria, cronica o anche infettiva dell’organismo verrà analizzata e combattuta sulla base dei geni che la determinano, o per lo meno la favoriscono».
E prevedeva una serie di sviluppi che poi si sono puntualmente realizzati, dallo screening genetico alle terapie geniche, dalla ricostruzione tridimensionale delle proteine a partire dai relativi geni, alla sintesi e clonazione di una proteina sconosciuta.
Quel lavoro di bricolage sulla materia vivente, come lui lo chiamava, avrebbe aperto la strada a nuovi, inimmaginabili traguardi, fino ai vaccini a mRNA ideati e prodotti con rapidità fantascientifica per stroncare il Covid-19. E altri ne vedremo, speriamo non sotto la sferza di una pandemia.
Ma Dulbecco era anche consapevole degli ostacoli e delle resistenze che il progetto avrebbe incontrato, e perciò dell’urgenza di un nuovo patto tra scienza e società. I social non erano nemmeno all’orizzonte, ma complottisti, apocalittici e odiatori di professione alzavano già la voce, fomentati a volte dalle bravate di ricercatori avventurosi o affaristi.
«Anche la scienza ha bisogno di regole – scriveva il grande genetista – non può svilupparsi in modo selvaggio, o addirittura in aperta sfida alla morale corrente. Una grande rivoluzione, com’è appunto la biotecnologia, rimette in gioco non soltanto gli aspetti materiali della vita, ma la nostra cultura, la nostra visione del mondo, i nostri valori. I cittadini devono essere in grado di capire i problemi scientifici senza equivoci e senza enfatizzazioni emotive. Gli scienziati devono uscire dal loro orgoglioso isolamento e mettere a disposizione del pubblico le loro conoscenze. I pericoli devono essere valutati apertamente, nasconderli non farebbe che esasperare le tensioni. Essenziale, in questo processo, è il ruolo di una stampa libera e indipendente. Gli operatori dell’informazione sono oggi i veri intermediari tra scienza e società. I politici sono troppo spesso al servizio delle ideologie, i giornalisti sono (o dovrebbero essere) al servizio della verità dei fatti».
Un vecchio ritornello che non ci stanchiamo di ascoltare, ma che pochi cantano ancora.