Forse pochi sanno che circa un quarto delle emissioni mondiali di gas serra derivano dalla produzione alimentare e che, parallelamente, il climate change sta minacciando l’approvvigionamento alimentare mondiale stesso a causa dello sfruttamento idrico e del suolo a un ritmo “senza precedenti”.
Proprio per questo la scienza, oltre ad attestare questo dato, sottolinea che non è possibile limitare la crisi climatica senza dar vita a cambiamenti significativi nel modo in cui ci alimentiamo.
Come riporta il Wwf, l’80% dell’estinzione di specie ed ecosistemi sia terrestri sia marini dipende da quello che finisce sulle nostre tavole, così come da quello che qui sprechiamo e che finisce nella pattumiera.
Con circa il 24% delle emissioni di gas serra di origine antropica, l’agricoltura è uno dei principali responsabili del cambiamento climatico e la prima causa di deforestazione mondiale per fare spazio a monocolture e allevamenti.
Inoltre, l’incremento di utilizzo di pesticidi e fertilizzanti chimici ha compromesso la chimica del Pianeta e inquinato ecosistemi e reti alimentari. Ma la tutela del Pianeta, fa sapere la principale organizzazione ambientalista del pianeta, deve andare di pari passo con quella dei diritti umani e deve quindi essere accompagnata da un quadro di maggiore giustizia sociale del sistema food, rivolto ad assicurare equità, eradicazione della fame e diritti dei lavoratori.
Ecco che allora anche i comportamenti di noi consumatori contano, perché la nostra dieta rappresenta, probabilmente, una delle nostre maggiori fonti di emissioni climalteranti.
Come riporta Annie Lowrey sull’Atlantic, due in particolare sarebbero le buone abitudini da incentivare a tavola: smettere di sprecare cibo e alleggerire la presenza di carne nella nostra dieta.
Lo conferma uno studio condotto nel 2019 da Rare, organizzazione per il cambiamento del comportamento nella conservazione, che propone una analisi sulle strategie di mitigazione del cambiamento climatico. In base ai risultati ottenuti, le due azioni sopracitate sarebbero addirittura più efficaci – circa del 50% -, nell’azione di riduzione delle emissioni climalteranti, anche rispetto al passaggio a illuminazione a Led, utilizzo di veicoli ibridi e pannelli fotovoltaici.
Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti, dove il problema dello spreco alimentare è rilevante: qui i cittadini buttano nella pattumiera circa un terzo del cibo, per un valore di 160 miliardi di dollari l’anno, che diventa componente prevalente delle discariche del Paese.
Per ogni americano circa 90 kg di cibo viene annualmente cestinato. In questo modo, vengono sperperate l’equivalente di oltre 1.250 calorie pro capite al giorno (più di 140 trilioni di calorie all’anno).
A impattare maggiormente sarebbero soprattutto le abitudini scorrette portate avanti tra le mura domestiche che non, ad esempio, nelle cucine di mense e ristoranti. Come spiega Lowrey, affrontare lo spreco alimentare, e quindi mangiare tutto il cibo prodotto, spingerebbe ogni Paese a risparmiare denaro, ridurre le emissioni climalteranti, alleviare il peso sulle discariche, ridurre il numero di animali sottoposti ad allevamento intensivo.
Allora, come risolvere il problema? Per esempio, iniziando a leggere la data di scadenza presente sui prodotti che intendiamo acquistare. Un problema che ha riscontrato la giornalista è che gran parte degli americani interpretano erroneamente le etichette, cestinando prematuramente i generi alimentari comprati per paura di intossicazioni alimentari.
«D’altra parte, si legge sull’Atlantic, i rivenditori e le società di produzione utilizzano 50 etichette differenti e nessuna è regolamentata a livello federale, ad eccezione di quelle presenti sui generi destinati ai neonati. La maggior parte degli alimenti è sicura fintanto che non vi è alcun deterioramento evidente, come muffa visibile o un cattivo odore. “Usa i tuoi sensi”, suggerisce Yvette Cabrera del Natural Resources Defense Council, l’organizzazione no profit per la conservazione, osservando che quei sensi sono stati affinati attraverso millenni di selezione naturale per aiutarci a capire se il cibo è sicuro da mangiare».
Gli esperti indicano anche una serie di semplici e antiche strategie che le famiglie possono adottare per scongiurare inutili sprechi. Comprare i prodotti in porzioni appropriate, oppure ancora mangiare gli avanzi di pasti precedenti, conservare gli alimenti in contenitori adeguati e alla giusta temperatura. Ma anche preparare e congelare i prodotti deperibili anziché lasciarli andare a male. Infine, controllare la dispensa prima di riempirla di prodotti già presenti.
E ora il punto due. Quando si acquista generi alimentari bisogna sapere che, prima ancora di scegliere cibo locale, di stagione, biologico e con un certo tipo di packaging, optare per prodotti non di origine animale risulta, in termini di impatto sul clima, la scelta da preferire.
Circa tre quarti dei terreni agricoli del mondo vengono destinati al pascolo del bestiame, all’allevamento e a produrre cibo per nutrirlo. Questo, però, incentiva fortemente la deforestazione, distruggendo serbatoi naturali di carbonio del pianeta, inficiando sulla biodiversità e sul consumo idrico.
Sull’Atlantic è stato messo sono torchio in particolare il manzo. «I bovini sono responsabili di circa due terzi delle emissioni di gas serra del settore zootecnico, mentre la carne bovina e i prodotti lattiero-caseari sono responsabili di circa un decimo delle emissioni globali complessive. La carne bovina produce circa otto volte più emissioni di gas serra rispetto al pesce o al pollame d’allevamento, 12 volte più delle uova, 25 volte più del tofu e ancora di più rispetto a legumi, noci, ortaggi a radice, banane, patate, pane, o mais».
Secondo Michael Clark, studioso di sistemi alimentari e salute all’Università di Oxford, la produzione di un solo kg di carne bovina richiede ben 20 chilogrammi di mais e soia. Inoltre, questa cosa è forse più nota, le mucche producono metano mentre digeriscono il cibo, un gas serra più impattante della CO2.
Quella auspicata non deve essere una presa di posizione drastica. Si consiglia, semplicemente, di diminuire la presenza di carne nella propria dieta. «Gli esperti, spiega Lowrey, incoraggiano a compiere piccoli passi significativi per ridurre il consumo di carne e cercare di trovare un po’ di gioia nel farlo. Rispetto a sprecare meno cibo e mangiare meno carne, tutti gli altri cambiamenti al proprio regime alimentare sono meno rilevanti».
Paradossalmente, secondo Clark, la carne locale allevata in modo non intensivo può produrre più emissioni della carne proveniente da un’operazione industriale concentrata. «Le vacche nelle operazioni di alimentazione concentrata degli animali vengono generalmente macellate tra i 12 ei 18 mesi di età, mentre le vacche allevate esclusivamente sui pascoli in genere vivono il doppio del tempo. La mucca che vive più a lungo emetterà più metano nel corso della sua vita».
Per quanto riguarda il biologico, la coltivazione di una determinata quantità di questi prodotti richiede più emissioni ed ettari di terra rispetto alla crescita della stessa quantità utilizzando i metodi di coltivazione convenzionali. Da uno studio condotto in Svezia è emerso che piselli e grano biologici avrebbero un impatto climatico maggiore rispetto ai loro cugini coltivati convenzionalmente.
Anche sul cibo locale, Lowrey espone una tesi che a prima letta potrebbe far storcere il naso. «Quando si tratta delle emissioni legate alla spedizione di cibo in tutto il mondo, gli esperti sostengono che, sorprendentemente, il locale non è sempre la soluzione migliore. Infatti, il trasporto di cibo tende a costituire solo una piccola parte delle emissioni totali di gas serra di un dato prodotto. Quello che mangi e il modo in cui è stato coltivato è molto più importante di come quell’alimento arriva sulla tua tavola».
Ci sono poi diverse tecniche di coltivazione su piccola scala che permettono la produzione di cibo senza pesticidi, senza monocoltura, con letame invece di fertilizzanti chimici e nel rispetto della biodiversità e della salute del suolo. Questi rimangono, senz’altro, aspetti importanti per la conservazione ambientale.
La conclusione è che diete che fanno bene al pianeta tendono ad essere buone anche per chi le mette in atto nella propria quotidianità. «Le nostre diete, conclude Lowrey, stanno cucinando il pianeta e cambiarle, anche a piccoli passi, potrebbe aiutare a evitare la catastrofe. Un hamburger a pranzo, un sacchetto di verdure appassite nella spazzatura: questi potrebbero non essere ovviamente distruttivi per l’ambiente come un jet privato o un’auto a gas. Ma sono scelte che facciamo quotidianamente e proprio per questo sono importanti».