La separazione consensuale
In astratto, potrebbe essere uno scenario referendario “aumentato” che nemmeno il più autorevole dei politologi oserebbe ipotizzare: porre gli italiani non di fronte alla scelta secca, come ha fatto la Gran Bretagna, tra Remain a member of the European Union or Leave the European Union (proprio la stessa semplicità e chiarezza espressiva dei nostri referendum! N.d.A), ma allargarla a una terza ipotesi: «Volete che il governo italiano esplori entro i prossimi 24 mesi la possibilità di dividere o riorganizzare l’attuale Unione Europea anche in più unità?».
L’ordinamento costituzionale italiano non prevede ovviamente alcuno strumento per sondare il parere degli italiani su una mera ipotesi politica.
A prescindere quindi dai possibili mezzi alternativi per avviare un percorso di riflessione sulla riforma (sondaggi demoscopici su campioni significativi, campagne di informazione, dibattiti, mozioni parlamentari ecc.), l’ipotesi che qui temerariamente si avanza è quella di riprogettare ex novo l’Unione europea per gruppi omogenei.
Ovvero tutti i 27 Paesi – partendo da quello che è ormai un presupposto riconosciuto, cioè che l’Unione europea così allargata, disomogenea, articolata, non funziona più – si siedono intorno a un tavolo e stabiliscono di comune accordo i parametri economici, sociali, storici, tradizionali, etici, linguistici, religiosi, in base ai quali disarticolare, riaggregare e rifondare la/le Europe.
Ammesso che vi si arrivi, quale potrebbe essere il risultato finale di un lavoro del genere? O tutto finisce in una bolla di sapone, o viene presa in carico la possibilità che l’attuale Unione possa essere spacchettata e ricomposta in base a principi di omogeneità.
Alla fine, potrebbero risultare due blocchi di Paesi: da un lato, per ipotesi, i nove Stati che hanno firmato il manifesto di proposta dei coronabond (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Slovenia, Grecia, Irlanda e Lussemburgo); dall’altro i diciotto restanti.
Continuando a ipotizzare, si potrebbe persino inventare un gioco per dare un titolo a ciascuno dei due gruppi.
Quello dei nove potrebbe essere l’“Europa carolingia”, evocando, con tutte le eresie e le licenze storiche possibili, l’impero di Carlo Magno che, partendo dalla Francia, arrivò a comprendere il Belgio, i Paesi Bassi, la Sassonia, la Baviera, la Marca di Spagna (fascia pirenaica) e l’Italia strappata ai Longobardi.
Mentre l’altro gruppo non potrebbe che essere identificato con l’“Europa prussiana”, dominatrice incontrastata di gran parte dell’est e del nord continentale.
Titoli e fantasie a parte, quando la tempesta perfetta della pandemia sarà passata bisognerà comunque ricominciare tutto da capo. «Immaginare una globalizzazione per blocchi solidali – dice un acuto osservatore come Rino Formica – forse più piccoli di un continente. E anche nell’eventualità che l’Europa rischiasse di non uscirne unita l’importante sarebbe che l’Europa fosse capace di coesione. Per la riorganizzazione dei blocchi, infatti, serve una base teorica, una prospettiva ragionata, possibile, a dimensione umana, in tempi non astrattamente futuribili. E c’è bisogno di una forza capace di assumere la guida di un simile processo politico».
Ecco, in sintesi, è proprio questa la motivazione di fondo del processo di rifondazione dell’ Europa che recuperi, alla luce dell’esperienza, lo spirito dei padri per ridare anima e slancio ideale al progetto ed evitare che l’Europa degli spread e dei pil finisca per rendere sterili le migliori energie dei nostri Paesi.
Quello slancio ideale che è venuto via via affievolendosi, come temeva Alcide De Gasperi tanti anni fa con accenti profetici: «Se noi costruiremo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore in cui le volontà nazionali si incontrino, si precisino e si animino in una sintesi superiore, rischieremo che questa attività europea appaia, al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale. Potrebbe anche apparire a un certo momento una sovrastruttura superflua e forse anche oppressiva».
A privare le politiche europee dello slancio necessario a una più convinta prospettiva unitaria sono stati nel tempo gli egoismi nazionali, i faziosi interessi di parte, le miopi contrapposizioni, l’assenza di qualsiasi visione. È allora inevitabile che il dibattito europeistico si sia isterilito e sia diventato incapace di rendere l’Europa vera protagonista politica nel mondo.
C’è da chiedersi se può ritrovare slancio ideale un’entità geografica di dimensioni ridotte, per esempio di soli nove Paesi, ma coesa, unita da valori, tradizioni, culture, economie, che ne fanno, pur con tutte le differenze storiche e linguistiche, una realtà sostanzialmente omogenea?
Senz’altro sì, come vedremo, a condizione che non si ripetano gli errori del passato in termini di integrazione politica, di armonizzazione legislativa, di equilibrio economico e finanziario.
L’unica incognita, ma determinante, per una formazione sovranazionale come l’“Europa carolingia”, idonea ad affrontare la sfida ciclopica della ricostruzione, è rappresentata dalla Francia. Se Macron capisse le potenzialità e le complementarità di partner come Italia, Spagna, Belgio, in termini di affinità strategiche e capacità operative e ne raccogliesse la nuova bandiera non ci sarebbero più problemi.
Marcello De Cecco, uno dei più intelligenti studiosi dell’economia reale, in occasione del convegno della Fondazione Roma citato, disse accorato: «Se una grande nazione come la Francia si riduce al ruolo subalterno della Germania, sono affari suoi. Purtroppo, però ci andiamo di mezzo anche noi, perché l’unione vera è sempre quella napoleonica, non c’è niente da dire, è l’unione francoitaliana.
L’unica volta che ho scritto nel ’93 su “Le Monde” che si dovesse prendere l’iniziativa e fare l’unione politica franco-italiana ho pensato: qualcuno risponderà. Nessuno, la Francia avrà letto e avrà detto, ah, les Italiens! Peggio per loro che non hanno capito. Pensate che cosa sarebbe l’unione franco-italiana, specialmente a quell’epoca in cui avevamo ancora un po’ di partecipazioni statali e grandi imprese, che adesso non ci sono più. Era veramente quello che ci voleva, ma i matrimoni si fanno in due, non è un solo partner a decidere».
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Alla luce di questi elementi c’è chi si comincia a domandare se «è pensabile che due nazioni di tradizione antica, in parte comune, con vaste influenze reciproche ma diverse, come Italia e Francia, possano diventare, almeno in parte, un solo sistema sul piano industriale e finanziario?».
Mutatis mutandis, lo stesso discorso può essere fatto per l’altra metà dell’Europa, che abbiamo chiamato “prussiana”. Intorno al magnete tedesco, infatti, già oggi Olanda, Paesi scandinavi e repubbliche baltiche sono allineate con Berlino.
Le stesse nazioni di Visegrad, Ungheria, Polonia, Romania, Bulgaria, Repubblica Ceca e Slovacchia, storici satelliti della Germania (con l’unica parentesi comunista del secolo scorso) sono ormai integrate al cento per cento con l’industria tedesca, che ne condiziona totalmente le rispettive economie.
Va a finire che quei 27 rappresentanti dei Paesi membri riuniti intorno al tavolo si potrebbero trovare d’accordo nel procedere ad una separazione consensuale che mettesse fine alla guerra dei vent’anni, combattuta praticamente su tutti i principali terreni di confronto, che hanno costretto l’Unione ad una sostanziale irrilevanza politica ed economica sullo scacchiere mondiale.
da “E se invece di una Europa ne avessimo due? L’ipotesi, non surreale, di una separazione consensuale”, di Emanuele Stolfi e Francesco Stolfi, Rubbettino editore, pagine 128, euro 12