Con il suo vibrante discorso alla Camera, Mario Draghi ha chiamato a raccolta il Paese sui grandi temi su cui si giocherà la partita del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il grande piano di rinascita dell’Italia.
Non è la prima volta che Montecitorio ha ascoltato grandi piani programmatici, quasi sempre rimasti sulla carta. Ma stavolta c’è una novità: un buon numero di questi progetti dovranno realizzarsi, pena la mancata erogazione dei fondi del Recovery fund europeo.
La Giustizia penale è uno dei settori più interessati, un nodo cruciale ed un grande tema divisivo. Dal caso Palamara al caso Grillo, fino agli arresti dei latitanti degli anni di piombo, gli ultimi giorni hanno offerto materia di discussione e di lacerazione.
Accanto alle riforme strutturali (informatizzazione e assunzione di personale) l’occasione è importante per riuscire comunque a varare riforme sempre rinviate, ma soprattutto a lasciarsi alle spalle gli anni bui della “dottrina Bonafede”, sia pure con un limite: si partirà comunque dall’impianto messo a punto dall’ex ministro dei Cinquestelle.
Eppure un altro diritto è possibile e su esso si stanno interrogando alcune delle intelligenze migliori del panorama giuridico italiano impegnate in una commissione ministeriale guidata dall’ex presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi.
Ma il problema di “un altro diritto” investe anche la sinistra, compresa l’area riformista, che ai tempi del Conte bis si era opposta alle “leggi manifesto” dei Cinquestelle.
Ad esempio per la prescrizione lo scontro è stato durissimo ma non condotto fino in fondo, specie dal Partito democratico che sul tema giustizia ha manifestato tutte le sue ambiguità.
La settimana ha registrato la presentazione di alcuni emendamenti da parte dei Dem e da parte di Azione, ma il termine è stato prorogato al 4 maggio.
Fa certamente piacere sentire da Anna Rossomando, nuova responsabile della giustizia del Partito democratico, che «il garantismo è uno dei fondamenti dell’essere di centrosinistra, delle civiltà giuridiche e delle democrazie liberali», ma è sulla natura delle riforme che si misurerà il nuovo corso.
Sicuramente non è difficile essere d’accordo sugli obiettivi, o almeno su alcuni – come il potenziamento dei cosiddetti riti alternativi, della definizione anticipata del procedimento senza passare dal processo e dalla riduzione dei tempi – ma il punto è il “ come”.
In poche parole: l’accelerazione dei processi si otterrà a scapito delle garanzie dei cittadini indagati rendendo ad esempio più difficili gli appelli ed i ricorsi, oppure si cercherà di garantire tempi certi che evitino il rischio della condizione di imputato a vita?
Sul tema scottante della prescrizione sembra percorribile la via indicata proprio dal Partito democratico che, fermo restando il blocco dopo la sentenza di primo grado, fissa tuttavia dei termini di fase tra appello e cassazione per la celebrazione dei processi, oltrepassati inutilmente i quali si estinguono i procedimenti oppure, secondo un’idea di cui si discute nella commissione Lattanzi, riprendono a decorrere i termini recuperando ai fini del calcolo i mesi decorsi inutilmente.
Su altri punti, quali la commissione d’inchiesta sulla magistratura che raccoglie adesioni insospettate come quella di Sabino Cassese o sulle intercettazioni, un’intesa sembra difficile anche se le ultime dalla vicenda Palamara hanno evidenziato i gravi rischi che può causare la gestione dei Trojan da parte di imprese private e dovrebbero indurre ad impiegare i fondi del recovery per garantire direttamente allo Stato la proprietà di questi delicati mezzi di indagine.
I temi caldi sono molti e il dibattito di Linkiesta prevede di riuscire a fornire un quadro completo di vari temi all’ordine del giorno. Ma ve n’è uno che i fatti più recenti hanno portato alla ribalta e sembra stare a cuore in particolare al ministro Marta Cartabia: la giustizia riparativa.
Uno strumento già previsto da uno dei più generosi e sfortunati disegni riformisti – quello della riforma del carcere licenziata dall’assemblea degli Stati Generali dell’esecuzione penale – la cui mancata attuazione è da addebitare alla mancanza di coraggio di una classe politica di fronte ai soliti “caveat” delle procure antimafia in servizio perenne.
Si tratta di un percorso parallelo a quello del processo penale, da condurre fuori di esso che secondo la nozione contenuta nella Direttiva 29/2012 dell’Unione europea indica «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale».
Questo istituto conosce ad oggi una timida presenza nel codice penale, circoscritta ai reati minori, ed invece può costituire la base di una vera e propria rivoluzione.
Basti pensare alla possibile risoluzione della vicenda umana degli ex terroristi che giustamente l’Italia ha reclamato e che tuttavia dovrà giudicare con un metro di valutazione totalmente diverso e che tenga conto del tempo trascorso.
A dire il vero, un’idea riformista di giustizia può spingersi più oltre, sino a pensare che il metodo della giustizia riparativa sia da applicare anche a casi “attuali” dove i confini tra reato e condotta riprovevole sono talmente sottili e controversi da richiedere una attenta valutazione delle conseguenze devastanti di una giustizia soltanto afflittiva e sanzionatoria.
Se si pensa al caso Grillo non si compie uno sforzo di fantasia.
L’idea che la vittima parli col colpevole è una sfida all’intolleranza ed alla negazione della speranza, ma non solo: in un mondo dove si vorrebbero cancellare le differenze di pensiero, l’idea di un riformismo legato alla costruzione di un “diritto mite della riparazione” è una battaglia di bandiera affascinante. Vediamo di capire se i tempi sono maturi.