C’è un Maramaldo a Palazzo Madama? La Presidenza del Senato ha di nuovo deciso di sospendere il vitalizio di Ottaviano Del Turco per motivi – pare – attinenti al fatto che nei giorni scorsi il figlio Guido è stato nominato amministratore di sostegno dal tribunale competente.
Poi si è saputo che l’Ufficio di Presidenza è stato convocato con questo tema all’ordine del giorno l’8 aprile. Escludendo che si sia trattato di un crudele pesce d’aprile, attendiamo fiduciosi il riesame.
Le condizioni di salute di Ottaviano sono note e col passare del tempo sono addirittura peggiorate: oltre alle gravi patologie di cui è sofferente, il mio amico non è più compos sui né in grado di svolgere in autonomia le più elementari funzioni quotidiane e che richiedono, pertanto, assistenza e cure continuative.
Ma nell’attesa di un atto di giustizia definitivo e stabile è opportuno sottolineare che in difesa di Del Turco non entra in gioco solo un moto di umana pietas, ma la convinzione che è necessario porre riparo ad un grave errore giudiziario.
La vicenda giudiziaria di Ottaviano Del Turco è andata avanti per un decennio. Le Corti che hanno esaminato il caso hanno, in pratica, sfogliato la margherita dei reati di cui era accusato: corruzione, concussione, truffa, falso e associazione a delinquere. E ovviamente ad ogni petalo strappato corrispondeva una riduzione della pena.
In primo grado, Del Turco fu condannato a nove anni e sei mesi. Nel processo di secondo grado vennero stralciati 21 episodi di dazione su 26, e la pena risultò più che dimezzata: quattro anni. Dopo un rinvio ad un’altra Corte e un nuovo giudizio, la Cassazione, infine, ridusse a tre anni e undici mesi la reclusione, l’interdizione dai pubblici uffici da perpetua a cinque anni, mentre cancellò l’associazione per delinquere.
All’ex presidente della Regione Abruzzo (Ottaviano era stato in precedenza segretario generale aggiunto della Cgil, parlamentare nazionale ed europeo, Ministro della Repubblica) non è stato possibile – direbbe Piercamillo Davigo – «farla franca» del tutto. L’ultimo ‘‘petalo’’ rimase attaccato alla corolla: Del Turco fu ritenuto colpevole di «induzione indebita a dare o promettere utilità» e condannato in via definitiva.
L’induzione è un reato di nuovo conio, introdotto dalla legge Severino nel 2012, per punire la concussione (il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che richiedono una dazione) anche quando non c’è minaccia o violenza. Attenzione, perché la fattispecie è suggestiva. Soprattutto se la mettiamo in relazione con la vicenda per cui è stato indagato, processato e condannato: aver estorto da un boss della sanità privata abruzzese una somma di denaro che – lungo l’iter processuale – si è sgonfiata passando da sei milioni a ottocentomila euro, dei quali non si è mai trovata traccia.
Ma come si fa a commettere un reato di «induzione indebita»? Non avendo una robusta cultura nel campo del diritto penale (è una carenza grave perché questa disciplina ormai è divenuta parte integrante della vita quotidiana di ciascuno) sono andato a consultare la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione.
E ho trovato la seguente motivazione: «Secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (…) la fattispecie di induzione indebita di cui all’art. 319-quater cod. pen. è caratterizzata da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, che lascia al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un suo indebito vantaggio, mentre nel reato di concussione ai sensi dell’art. 317 cod. pen., si è in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del destinatario».
Nel caso Del Turco/Angelini (questo è il nome del titolare di un gruppo di cliniche private che denunciò Del Turco) non vi è stato «l’indebito vantaggio», visto che la Giunta regionale non ha mai ritirato la delibera con la quale venne rivisto il rapporto tra la sanità pubblica e quella privata, recuperando alle casse della Regione svariate decine di milioni di euro. Quanto alla «pressione non irresistibile che lascia al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione» ho cercato di farmi un’idea di quale potesse essere stata la condotta del mio amico Ottaviano per incorrere in una fattispecie di reato di «concussione gentile» da ladro gentiluomo (Arsenio Lupin d’Abruzzo).
Poiché nella vicenda ha svolto un ruolo importante un sacchetto di mele, può essere che ciascun pomo (anziché dimostrare l’esistenza della legge di gravità) sia servito a quantificare la somma che Ottaviano avrebbe gradito («mi raccomando, dottore, faccia come crede ma non si disturbi più di tanto»).
Rimane, poi, un aspetto da chiarire: come può un cittadino essere imputato per azioni risalenti a prima del 2008 (Ottaviano fu arrestato all’alba del 14 luglio di quell’anno) che ancora non costituivano un reato già previsto dall’ordinamento, perché l’induzione fu introdotta con la legge n.190 del 2012?
Mi si può rispondere che ricorrere, in tempi di giustizialismo imperante, all’articolo 25 della Costituzione («Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso») è una sottigliezza giuridica (al pari dell’abominevole prescrizione) usata pretestuosamente dagli avvocati per impedire che la spada della giustizia faccia il suo corso. Del resto siamo abituati ad una giurisprudenza creativa di reati che nessuna legge ha mai sancito.
Come ha scritto Filippo Sgubbi, è il caso di incriminazioni non di origine legislativa ma giurisprudenziale, tra le quali spicca il cosiddetto concorso esterno nei reati associativi «ove l’imputato potrà apprendere solo dal dispositivo della sentenza – e quindi ex post – se la propria condotta rientra o meno in tale figura».
Torniamo al reato di «induzione». Se abbiamo ben compreso, la norma fu introdotta dalla Legge Severino, nel 2012, per differenziare le fattispecie inerenti al reato di concussione. Delle due l’una, allora. O l’induzione è un reato di nuovo conio che non ammette – come abbiamo già sottolineato – un’applicazione retroattiva; oppure la condotta illecita, ora sanzionata come reato di induzione, prima del 2012 rientrava nel caso più generale della concussione: uno dei reati da cui Ottaviano Del Turco è stato assolto.
Penso che qualcuno avrebbe il dovere di spiegare i motivi di una sentenza che a mio avviso non sfugge da queste contraddizioni. Ma non è questa la sede per la revisione del processo (la relativa udienza è stata fissata in aprile a fronte di nuovi elementi di prova presentati dalla difesa) né chi scrive ha titolo per farlo. Il problema di oggi è un altro. La giustizia (anche ammesso ma non concesso che la «candida Dike» c’entri qualcosa in questa sordida vicenda) non può essere crudele.
Al Dicastero di via Arenula ora c’è Marta Cartabia, un presidente emerito della Consulta, sensibile e giusta. Se fossi nei famigliari non trascurerei la via della Grazia.