Il settore delle opere pubbliche in Italia continua a trovarsi in uno stato di profonda emergenza. Le stazioni appaltanti, pubbliche e private, sono imbrigliate in procedure farraginose che portano all’allungamento, senza pari in Europa, dei tempi di progettazione, affidamento ed esecuzione delle opere pubbliche. È questa la denuncia sollevata dall’Igi (Istituto grandi Infrastrutture) e del suo segretario generale Federico Titomanlio.
Gli ostacoli sono fondamentalmente due: « il binomio processo autorizzatorio/progettazione, ovvero tutta la fase che precede la gara per l’aggiudicazione dell’appalto; e le procedure di affidamento, cioè l’iter amministrativo che si deve affrontare per permessi e idoneità», spiega a Linkiesta Titomanlio.
Primo livello, secondo livello, il controllo delle amministrazioni competenti, l’eventuale appalto per il progetto definitivo e la creazione di un esecutivo. Un complesso lungo e tortuoso che ci distingue da tutti gli altri Paesi europei, i quali impiegano al massimo due anni per contrattualizzare i progetti. «Basti pensare che, con la vigente normativa, la contrattualizzazione di un progetto, nemmeno di particolare importanza, non avviene prima di cinque anni» continua il segretario generale.
Quali sono le conseguenze di questo labirinto burocratico? «Costi più alti e tempi più lunghi. Senza contare che le amministrazione sono soggette a cambiamenti interni e non dispongono di tecniche avanzate al loro interno, il che fornisce un quadro all’estero che scoraggia gli investitori», puntualizza Titomanlio.
Per questi motivi Igi propone un suo manifesto di revisione del settore. Partendo proprio dai livelli progettuali: «Snelliamo i passaggi: ci devo essere solo il progetto definitivo e quello esecutivo, senza i tortuosi passaggi nel mezzo».
È necessario poi, si legge nel documento, eliminare sia le violazioni della regola del gold plating (che comporta che non si possano stabilire oneri a carico degli operatori economici ulteriori rispetto a quelli previsti dalle direttive europee), sia le numerose divergenze dalle disposizioni delle direttive europee.
E ciò vale per tutto, non solo per le grandi opere: «Tranne le manutenzioni ordinarie, tutti gli interventi soffrono di queste lungaggini burocratiche», continua Titomanlio.
Appare poi fondamentale, per accelerare la realizzazione di opere pubbliche, attuare interventi di semplificazione amministrativa che snelliscano e velocizzino, anzitutto, gli iter autorizzativi dei progetti, al fine di allineare i cosiddetti “tempi di attraversamento” degli appalti italiani – che in media rappresentano circa il 54 per cento della durata complessiva di realizzazione dell’opera, valore che sale al 60 per cento guardando alla sola fase di progettazione – rispetto a quelli dei principali Paesi Europei.
Un altro elemento è la comunicazione con gli enti interpellati per le idoneità: «Questi soggetti ci devono segnalare tutte le modifiche in un primo momento, e non farci tornare ogni volta alla casella di partenza perché altri enti non convalidano i cambiamenti imposti dall’ente precedente», svela Titomanlio.
Nelle lista delle strade alternative ci sono anche il riconoscere un potere di ultima istanza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, o alla Giunta regionale, in caso di superamento dei termini; prevedere che qualsiasi parere o atto di assenso dopo la conclusione della conferenza di servizi debba essere rilasciato entro 30 giorni, decorsi i quali scatta il silenzio assenso; e prevedere un parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici solo per progetti di importo superiore a 100 milioni di euro, e sempre che si tratti di opere finanziate direttamente dal bilancio pubblico con non meno del 50 per cento.
Ad assumere molta importanza è anche l’appalto integrato: «Ovvero quando l’appaltatore non è solo incaricato di costruire l’opera, ma è anche incaricato di fare il progetto esecutivo. Noi chiediamo di porre a base di gara il progetto di fattibilità tecnica ed economica, in modo da non interrompere nuovamente il progetto arrivato alla fase esecutiva», aggiunge Titomanlio.
Il manifesto di Igi spiega anche che «occorre procedere sin da subito ad una rimozione mirata, dal Codice dei contratti pubblici, dei principali vincoli non previsti dalle direttive europee per i settori ordinari contribuendo, sebbene in parte, a ridurre i maggiori appesantimenti procedurali e/o incertezze applicative».
La disciplina prevista dall’art. 177 del Codice dei contratti – completamente difforme da quella europea, non soltanto nella sua versione vigente – oltre ad incidere in via retroattiva su contratti in corso, ingessa in maniera del tutto anomala l’attività tipica del concessionario e si ripercuote negativamente sull’efficienza, sui tempi e sui costi di realizzazione degli investimenti e di svolgimento delle performance richieste.
«La nostra proposta è di eliminare tutti i rimandi normativi alla disciplina dei settori ordinari per evitare duplicazioni normative e appesantimenti procedurali». Anche in vista di una ripresa del mercato delle concessioni: «Stiamo aspettando da anni che gli investitori istituzionali vengano a costruire nel nostro Paese, ma le direttive appalti e quelle sulle concessioni, al contrario di quelle estremamente liberali per i privati, allontanano questi soggetti che vogliono muoversi in autonomia, e non aspettare fino a 48 mesi per la chiusura di una gara d’appalto», conclude Titomanlio.