Eppur si muove: con buona pace dei nostalgici vedovi inconsolabili del defunto governo Conte, i segnali di discontinuità dalla nuova leadership continuano ad arrivare. Tra questi i più significativi provengono dalla Giustizia dove gli avvisi di un lento ma progressivo cambiamento sono stati più d’uno questa settimana.
Una Associazione nazionale magistrati (Anm) sempre più sull’orlo di una crisi di nervi (sconcertanti, in particolare, le dichiarazioni di una persona solitamente misurata come l’ex presidente Luca Poniz) ha giocato la carta disperata del populismo di corporazione invocando la precedenza ai magistrati per le vaccinazioni, adombrando ciò che a molti è sembrata una minaccia di serrata.
Non è difficile immaginare cosa sarebbe successo col vecchio governo: non ci sarebbe stato bisogno di alcuna protesta, il servizievole Alfonso Bonafede avrebbe provveduto spontaneamente.
Al presidente del Consiglio Mario Draghi e a Marta Cartabia è bastato manifestare «stupore» per indurre saggiamente alla ritirata gli incauti agitatori in toga, peraltro già richiamati dalle non poche teste pensanti che fortunatamente ci sono ancora nella magistratura pur in tempi difficili come questi.
Il neoministro della Giustizia, in particolare, sta emergendo come una delle figure centrali avendo il coraggio di affrontare e intervenire su temi anche divisivi che il suo predecessore ben si sarebbe guardato dal toccare. Come il carcere, per esempio, da non considerare più come «pena unica necessaria» o la tutela del principio di non colpevolezza, su cui è riuscita a chiudere un accordo nella maggioranza che il 30 marzo lo ha votato alla Camera pressoché unanimemente (un solo voto contrario).
Il tema era diventato scabroso e tale da poter provocare una prima seria scossa per la coalizione.
Una direttiva europea varata cinque anni fa e accuratamente bloccata nei meandri delle commissioni parlamentari in ragione della carica dirompente del suo assunto di base: nessun pubblico ministero o autorità dello Stato può indicare come colpevole un indagato o un imputato prima che nei suoi confronti sia emessa una sentenza di condanna.
Mi rendo conto che detta così suona come una banalità oppure come una mera duplicazione dell’art. 27 della Costituzione, ma non è così.
Se questa direttiva fosse stata subito recepita con una legge di attuazione sollecita come avvenuto in tutti gli altri Paesi europei non sarebbe stato possibile ciò che abbiamo costantemente visto in questi anni.
Non sarebbe stato consentito, ad esempio, all’allora procuratore capo di Roma di presentare in modo trionfale l’arresto di decine di indagati di Mafia Capitale convocando una conferenza stampa in pompa magna, leggere stralci di intercettazioni accuratamente scelti e di consentire che venissero diffuse da un apposito «ufficio pubblicità» dei Ros (definizione di un teste dell’Arma) ampi stralci di filmati di pedinamenti e gli arresti a mani alzate di alcuni indagati.
Per restare a un esempio più vicino, non avrebbero potuto andare in onda reportage televisivi come quello dedicato da Riccardo Iacona a un’indagine del procuratore capo Nicola Gratteri magnificata come risolutiva senza l’ombra di un processo.
Il fatto che i vertici della Rai e molta parte dell’opinione pubblica si siano stupiti delle proteste, e abbiano paventato il rischio di un bavaglio semplicemente per la pura enunciazione di principi che ogni costituzione dei Paesi democratici prevede, la dice lunga sulla gravità della situazione.
Sempre nella stessa direttiva sono contemplate altre disposizioni che riguardano la tutela del diritto di chi è indagato a partecipare o di essere edotto dello svolgimento di un processo a suo carico, addirittura di quello di tacere di fronte alle domande di un pm o del giudice senza che ciò venga utilizzato come indizio a suo carico, ed infine il principio dell’onere della prova a carico dell’autorità giudiziaria senza possibilità di ricorrere a presunzioni legali di responsabilità.
L’Abc dello Stato di diritto, insomma, che l’Unione ha dovuto inserire in una direttiva presumibilmente diretta ai Paesi illiberali dell’Est Europa ma che ha causato fortissime resistenze in Italia.
Si tratta di una serie di petizioni di principio che necessitano di essere trasfuse in un decreto legislativo del governo che dovrà fissare oltre al precetto normativo anche l’apparato sanzionatorio per chi dovesse violare i precetti.
Eppure solo per autorizzare il governo a emanare la legge ci sono voluti cinque anni e se si è riusciti a ottenere il varo di una semplice delega lo si deve ancora una volta, come è stato per la prescrizione, alla moral suasion del Guardasigilli.
Sia Azione sia Italia Viva avevano deciso di presentare dei propri emendamenti per superare l’impasse creato dai continui rinvii nelle commissioni della legge delega che recepiva la direttiva. Alla fine Cartabia ha convinto le parti a concludere un accordo in base al quale ci si è limitati a riprodurre le disposizioni votate dal Parlamento europeo senza alcun ritocco.
La soluzione ha consentito di evitare la fibrillazione in seno al governo in quanto i Cinquestelle avevano fatto muro contro ogni misura proposta dagli “alleati” di Azione e Italia Viva che insistevano per introdurre nella delega anche le specifiche sanzioni per magistrati e giornali che violino la norma.
L’opera di mediazione del ministro ha avuto successo, e dopo cinque anni dal varo la direttiva sulla presunzione di innocenza ha trovato il via libera per diventare a tutti gli effetti una legge dello Stato italiano con il voto favorevole anche dei giustizialisti a cinque stelle.
E tuttavia l’euforia e l’enfasi diffuse ieri dalle rappresentanze garantiste sono eccessive: un principio introdotto in una legge di delegazione è meglio di niente ma resterà una pura, solenne, aspirazione, una mera speranza, se non verrà varata una legge che contenga specifiche sanzioni per le violazioni degli obblighi di salvaguardia del principio di non colpevolezza.
Occorrerà vedere cosa accadrà durante il nuovo passaggio alla Commissione Giustizia del Senato e soprattutto se verrà varata una seria e particolareggiata normativa dal governo.
Per capire l’importanza della legge va precisato che le garanzie in essa contenute non riguardano solo la reputazione dell’indagato ma anche l’indipendenza di giudizio del giudice, quella che viene definita la neutralità psicologico-cognitiva.
Sembrerà incredibile ma già il codice di procedura penale prevede che il giudice debba conoscere le prove (ad esempio le intercettazioni) solo quando inizia il processo ed esse gli vengono presentate dal pm. Avete capito bene: il giudice dell’udienza preliminare di Perugia, ad esempio, avrebbe dovuto sapere solo oggi delle chat di Palamara e delle conversazioni notturne all’hotel Champagne.
Viene da ridere solo a dirlo, pensando che su di esse è stato costruito un bestseller editoriale. Eppure negli altri Paesi la pubblicazione di verbali e documenti di prova porterebbe all’invalidazione del processo (in Inghilterra la pubblicazione arbitraria degli atti o l’indebita conoscenza che ne abbiamo i giurati costituisce oltraggio alla Corte e prevede una sanzione detentiva).
In Italia ogni plateale violazione del segreto d’indagine resta impunita perché i responsabili pur facilmente identificabili restano occulti e le sanzioni economiche previste per i giornali sono risibili in un paese dove alcuni organi di stampa hanno fatto della pubblicazione dei verbali della procura il loro core business.
Inutile festeggiare e scambiarsi pacche sulle spalle: o si varerà una legge che preveda specifiche e costose sanzioni o i principi europei resteranno lettera morta e continueremo a cibarci delle conferenze stampa in pompa magna di procuratori ed alti ufficiali delle agenzie investigative.
L’unico serio rimedio è che si sanzioni la diffusione indebita degli atti con l’inutilizzabilità di essi nel processo: davanti al rischio di perdere le intercettazioni come mezzo di prova il segreto sarà certamente tutelato.
Analogamente si potranno stabilire rimedi che comportino il trasferimento del processo ad altra sede e se è consentito un non richiesto consiglio l’applicazione alle procure che non sappiano controllare la fuga di notizie degli stessi criteri di responsabilità oggettiva che esse invocano ed applicano alle imprese per le condotte illecite dei propri dipendenti.
O si daranno anche esse efficaci modelli organizzativi di controllo oppure è giusto che ne rispondano: disciplinarmente a titolo individuale ed economicamente tramite i risarcimenti congrui dello Stato.
Se il mancato controllo sul via vai di verbali divenisse una nota di demerito o censura sulla carriera dei dirigenti l’ufficio e dei titolari delle indagini, io credo avremmo concreti progressi.
Intendiamoci, il problema non è solo la loquacità di qualche pm o la spregiudicatezza di qualche investigatore, ma anche il ruolo distorto assunto da alcuni giornalisti che agiscono non solo da diffusori passivi della notizia ma da veri spin doctor delle indagini esaltando il punto di vista degli accusatori, primari fornitori di prezioso materiale con cui riempire le pagine.
Si dovrebbero in teoria prevedere misure di sequestro ed oscuramento dei siti: avrà il coraggio la politica di porsi in urto rispetto ai media? Lecito dubitarne, ma allora inutile vendere fumo.
E non si venga a parlare di attentato alla libertà di stampa, la giurisprudenza della Corte costituzionale è costante: se ci sono diritti costituzionali in antitesi (nella specie, diritto all’informazione, principio di non colpevolezza e giusto processo) bisognerà bilanciarli limitandoli in proporzione, come enunciato nella nota sentenza sul caso Ilva del 2013 dove in ballo erano principi altrettanti fondamentali come la tutela della salute e del lavoro.
Sarà un caso, ma ieri sera mentre i garantisti festeggiavano, sui canali pubblici andava in onda il consueto massacro: dal direttore de La Verità Maurizio Belpietro che annunciava la pubblicazione di nuove, fresche, intercettazioni contro i Benetton (il processo sul ponte Morandi è ancora in fase di indagini) ai telegiornali che diffondevano frasi in dialetto siciliano – che ha sempre il suo fascino evocativo di stampo mafioso – pronunciate da indagati arrestati in Sicilia (da un giudice peraltro incompetente per territorio che ha già preannunciato l’invio degli atti ad altro collega, ma su questo diciamo nessuno ci fa caso, roba da legulei) per una supposta alterazione dei dati del contagio. Altro che moral suasion, gentile ministro.