Nell’Era della suscettibilità (copyright Guia Soncini, Marsilio) scrivere un articolo sull’ipocrisia con cui a sinistra si affrontano le cosiddette questioni di genere – espressione peraltro orrenda: già che ci siamo, diciamoci anche questo – e soprattutto illudersi di poterlo fare impunemente senza essere donna, né di destra, richiede un certo sprezzo del pericolo.
Essendone del tutto sprovvisto, comincerò dunque con una serie di noiosissime precisazioni, che il lettore disinteressato alle cerimonie inutili può saltare a piè pari, andando direttamente al capoverso che comincia con le parole: «Ora però guardate la foto».
Cominciamo dunque col dire che Enrico Letta ha perfettamente ragione nel sostenere che la questione femminile, nel Partito democratico, non poteva più essere ignorata, tanto meno dopo la nomina di tre ministri tutti e tre maschi. E ha di nuovo ragione nel difendere più o meno con gli stessi argomenti la politica delle quote, definendola sostanzialmente una brutta soluzione, piena di difetti, ma priva di alternative migliori. Aggiungo pure – l’ho già scritto all’inizio di tutta la vicenda dei capigruppo, ma la prudenza non è mai troppa – che Graziano Delrio e Andrea Marcucci, a mio parere, avrebbero dovuto presentarsi dimissionari sin dall’inizio, essendo stati eletti due governi e due segretari fa. E che dunque Letta avrebbe avuto ottime ragioni politiche per chiedere, o almeno aspettarsi, un simile gesto di disponibilità da entrambi, anche nel caso in cui fossero stati entrambi donne.
Ora però guardate la foto che Letta ha postato sul suo profilo instagram, e leggetene con me la didascalia: «Si comincia. Subito al lavoro al @partitodemocratico con le due nuove capogruppo @lamalp e @deboraserracchiani. #iocisonoPD».
Lo so, si vede subito che non è uno scatto di Oliviero Toscani, ma non è questo il punto. Il punto è il significato di quella che appare proprio come l’esposizione di un trofeo, il simbolo della prima vittoria del nuovo segretario sulle deprecate correnti, che però mal si concilia con la retorica femminista (metto provvisoramente tra parentesi un ulteriore dettaglio che per viltà conto di cancellare prima di inviare l’articolo: l’immagine del segretario dietro la scrivania, nel suo ufficio, con le due neocapogruppo sedute davanti a lui, proprio dal punto di vista visivo, fa assai più convocazione dal preside che empowerment femminile).
Ancora più significativo è però il modo in cui Letta ha ripetutamente giustificato la scelta di imporre il cambiamento dei due capigruppo, da ultimo nell’intervista pubblicata ieri dal Corriere della Sera. «La prima linea del Pd – ha detto – finora è stata composta da uomini (il segretario, i ministri, i Presidenti di Regione, i capigruppo). Queste sono le persone che si vedono e che fanno il Pd. Quando io sono arrivato, erano tutti uomini. Undici uomini su undici persone».
Se conoscessi meglio il gergo con cui di solito si tratta questa materia, sono sicuro che troverei l’espressione giusta per definire il modo in cui sui luoghi di lavoro (e non solo) le donne sono spesso trattate come se fossero semplicemente invisibili, e inudibili, in pratica inesistenti.
Qualunque sia il termine, che certamente esiste, e se non esiste andrebbe inventato, si applica perfettamente a questo bel discorsetto che, ripeto, Letta aveva già fatto in diverse occasioni, senza che nessuno, almeno che io sappia, si sia mai permesso di obiettargli: scusi, ma il Pd non ha forse una presidente, donna, di nome Valentina Cuppi? E non è forse quello del presidente un ruolo di primissima linea, tanto che il predecessore di Cuppi era un certo Paolo Gentiloni, il cui incarico precedente era presidente del Consiglio, e il successivo commissario europeo?
Perché dunque ripetere che all’arrivo di Letta le cariche di prima linea nel Pd erano occupate tutte da uomini, «undici uomini su undici persone», e non dire semmai che lo erano undici su dodici? Non avrebbe certo tolto forza all’argomento. E per quale ragione, nel pieno della battaglia sulla questione della parità di genere nel Pd, a nessuna donna del partito (e a nessun uomo) è venuto spontaneo far notare la bizzarria di una simile, ripetuta, omissione? (Se qualcuno lo ha fatto e non me ne sono accorto me ne scuso, ma evidentemente almeno fino all’intervista di ieri non dev’essersene accorto nemmeno il segretario).
In compenso, a denunciare il maschilismo del partito è stata Marianna Madia, che dopo essersi candidata alla guida del gruppo parlamentare alla Camera aveva denunciato manovre di corrente in favore dell’altra candidata, Debora Serracchiani, e ieri su Repubblica ha riassunto le due accuse in un’intervista dal titolo: «Risultato già scritto, hanno prevalso le correnti. Quanto maschilismo su di me».
Come e perché nella scelta del presidente del gruppo parlamentare del Pd non dovrebbero prevalere accordi e trattative tra i parlamentari del Pd, e dunque anche tra le relative correnti, lo confesso, non sono in grado di capirlo. Sospetto però che questo modo di presentare la questione non abbia fatto un gran bene né all’immagine del partito all’esterno né ai rapporti interni.
Ma per restare al mio tema – il modo obliquo di discutere i problemi politici, utilizzando strumentalmente altre questioni – citerò il seguente passaggio dell’intervista dell’ex ministra: «Con i nostri corpi io e Debora abbiamo aperto un varco e adesso non dobbiamo mollare questa questione che, ripeto, è politica».
Non so quale varco abbiano aperto con i loro corpi due deputate del Pd che semplicemente, e legittimamente, volevano entrambe fare la capogruppo. Suggerirei però di richiuderlo il prima possibile.