Ne La nazione delle piante, il neurobiologo Stefano Mancuso cita una foto iconica della Terra scattata il 24 dicembre 1968: «L’astronauta William Anders scattò una foto, chiamata poi “L’alba della terra” dove per la prima volta nella storia dell’umanità vediamo quella meraviglia del nostro pianeta: un pallino blu, bianco e soprattutto verde» ricorda Mancuso su Linkiesta.
Per sopravvivere l’uomo ha sempre sposato il modello della predazione, ma ha attinto dalle piante il paradigma di una società ideale, ai limiti dell’utopia.
Non a caso, il monaco irlandese Scoto Eurigena legge nel paradiso della Genesi biblica – dal greco parádeisos, giardino – la metafora di una natura umana incorrotta all’alba del peccato.
Mille anni dopo, la stessa immensità inviolata si leggerà in controluce nelle pagine di Tristi Tropici dell’antropologo Claude Lévi-Strauss: «Il Brasile si configurava nella mia immaginazione sotto forma di fasci di palmizi contorti, dissimulanti bizzarre architetture, il tutto intriso di un aroma di bruciaprofumi, particolare olfattivo, questo, che, più d’ogni altra esperienza successiva, spiega come ancora oggi io pensi al Brasile come a un profumo bruciato».
Opposto al non-luogo di Marc Augé, nella sua definizione il giardino pullulante di piante ha una forte connotazione simbolica tanto da aver condizionato la tradizione culturale dell’Occidente e del vicino Oriente: nell’iconografia sono celebri le Madonne chiuse nel loro hortus conclusus, metafora della verginità.
La letteratura ha sempre dato corpo al regno vegetale su un piano puramente allegorico: dalla «selva oscura» nella Commedia di Dante alle «cinquecento varietà di rose» coltivate da Teresa, moglie tradita in Storia della mia ansia di Daria Bignardi (Mondadori, 2018), le piante diventano paradigmi del nostro vivere.
Quando nel 2019 presso la Fondation Cartier di Parigi è stata inaugurata la mostra Nous les arbres, una delle critiche più frequenti era l’assenza di contributo delle piante al vivere collettivo. Lo scorso dicembre sul quotidiano Domani, il filosofo Paolo D’Angelo ha aperto un dibattito, criticando la posizione di studiosi come Mancuso e Coccia che ravvisano nel regno vegetale un modello sociale: «Quando Mancuso ne deduce che non ci resta che adottare il modello delle piante e trasferirlo alla vita sociale ed economica, non sta più ragionando da biologo.
Sta suggerendo che una determinata organizzazione sociale migliore perché modellata su quella che, in natura, ottiene i migliori risultati» spiega D’Angelo. Ma è davvero così facile liquidare la questione?
«Nel suo ragionamento, Mancuso prende a esempio piante molto veloci nelle loro reazioni. In questo senso, si può parlare di una metafora collettiva» spiega Marcello Di Paola, docente di filosofia alla Luiss di Roma, ricercatore presso l’Università di Vienna e co-autore di Etica e politica delle piante (DeriveApprodi, 2019). «Basta analizzare un ecosistema come il deserto, perché questa metafora collettiva scompaia» aggiunge.
Per Di Paola, che da anni si occupa del significato sociale delle piante, i vegetali sono un esempio di resilienza, ma anche l’allusione alle nostre società: «Se parliamo di contesti democratici, le piante sono non-agenti politici, perché chi è toccato dai governi è un non-agente. Dare diritti politici alle piante è una metafora interessante perché risveglia una questione più profonda alla quale solo le cose metaforiche possono solo alludere: il rapporto tra agenti e non-agenti».
Eppure, quando ne I Promessi Sposi Renzo ritrova la vigna nel suo paese, le piante che la infestano nell’incuria sono metafora calzante di una società che non smette di sopraffare il più debole: «si tiravan giù pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio» osserva, sebbene studiosi del “terzo paesaggio” come Gilles Clément respingano la categoria di “infestante”.
«Nella sua essenza, l’erbaccia è un marchio dell’uomo, si muove con l’uomo e si adatta ai suoi spazi, come i cigli delle strade o le case. In Amazzonia o nella Death Valley, le erbacce non ci sono» spiega Di Paola. In questo senso, l’erbaccia diventa metafora di un fare politica sofistico, che aggredisce le piante più deboli ma è anche segno inequivocabile di un giardino non coltivato. «La politica è come un giardino: va coltivata nel tempo e preservata dalle narrazioni che negano la deliberazione politica, ma che sono legittimate solo dalla loro capacità di adattarsi ovunque».
In questo senso, ha ragione Mancuso a parlare di intelligenza delle piante come forma primitiva di coscienza, che permette un’affinità filosofica con l’uomo. Sicuramente, non è immediata come con gli animali e lo dimostra l’assenza di un attivismo sistematico.
Nel campo dei diritti animali, per esempio, l’Olanda ha un partito con tre seggi in Parlamento, al centro di scontri accesi in passato, come nell’uccisione del politico Pim Fortuyn da parte di un attivista: «Tu guardi l’occhio di un animale e puoi sentirti mosso emotivamente» spiega Di Paola.
La scrittrice J. K. Rowling, per esempio, confessò di aver concepito la storia di Harry Potter osservando una mandria di mucche nella pianura inglese. Eppure, per Di Paola «relazionarsi con le piante è un’esplorazione del se stessi con il non-umano abbastanza importante» che consente lo sviluppo di un modo di fare politica più serio, senza la necessità di un movimento.
Alla nociva competitività delle piante nella giungla, Di Paola contrappone l’attivismo del cactus: «Nella giungla vincono le piante che arrivano più in alto – usiamo anche noi il termine “svettare” – Il cactus, invece, ha un comportamento opposto: non ha alcun incentivo alla crescita e opta per il consolidamento. È il contrario dell’essere umano di oggi, che vuol vedere action e non apprezza la lentezza. Ma cosa è più resiliente di un cactus?».
Per Di Paola, dunque, il cactus è la metafora della buona politica: procede per gradi, non per una lentezza burocratica, ma perché tende al consolidamento dei suoi pilastri (come la sanità, l’istruzione, il welfare).
Proporre una politica lenta e intelligente significa saperla coltivare. La soluzione, quindi, è concepirla come un hortus conclusus, un giardino chiuso alle intrusioni esterne? «La politica, come il sacro, non possono sottrarsi al dibattito pubblico – spiega Di Paola – Nel suo On Liberty, John Stewart Mill diceva che le opinioni sbagliate sono utili, salvo poi ribadire che, in taluni contesti, possono diventare sfavorevoli. Il sacro non può sottrarsi al dibattito pubblico, ma deve nobilitare e farsi centrale nelle società. La riproposizione di una politica come hortus conclusus avviene solo quando c’è una crisi di senso dei valori».
Un esempio su tutti è quello dei cambiamenti climatici. Come spiega il filosofo Jeremy Morton, la crisi climatica è un iperoggetto, un tema esteso su uno spettro spaziotemporale troppo ampio da essere percepito dall’essere umano nella sua totalità.
Da ciò discendono i movimenti negazionisti, ma anche il fatto che, a sei anni dagli Accordi di Parigi, sono ancora alte le aspettative di iniziative come il Summit dei leader globali sul clima, in programma il 22 e 23 aprile negli Stati Uniti. «La crisi di senso discende da una crisi di valori. Ma fare politica significa saper coltivare, dare valore agli obiettivi comuni e arrivare a scelte radicali, se necessario. Lo diceva Esiodo ne Le opere e i giorni, lo ripeteva san Benedetto da Norcia nella massima ora et labora. Assiomi che condividono prese di posizioni nette, che non possono essere tiepide, come oggi sono la carbon tax o le regolamentazioni nel cyberspazio» aggiunge Di Paola.
In questo senso, essere erbaccia, significa assumere un atteggiamento tiepido, mascherato di tolleranza. L’assenza attuale di una normativa nello spazio, per esempio, ha reso possibile la presenza di circa 28mila frammenti di spazzatura spaziale, secondo le ultime stime dell’Esa, e questo porta a problemi come l’inquinamento luminoso e la rifrazione delle frequenze terrestri.
Le piante, quindi, possono essere un modello di buona politica, purché non si prescinda dal loro valore essenziale: il tempo. Per Di Paola ogni iniziativa umana richiede il tempo come fondamento: «Noi abbiamo bisogno della posterità per dare un senso all’oggi. Se non vediamo il futuro, non possiamo vedere il valore del presente».
È per questo che nel film V per Vendetta (2006), Teresa smette di coltivare le rose Violet Carson quando il governo inglese prende la forma di un regime e la compagna Ruth viene incarcerata per la sua affettività: in un futuro che viene abortito o negato, non si può più essere semi, cioè piante in potenza. In alternativa, ciò che rimangono sono vegetali recisi, all’apparenza belli, ma destinati a sfiorire.
Lo ha spiegato bene alle soglie del Duemila Sam Mendes nel film American Beauty (1999), dove la rosa recisa e spogliata dei suoi petali, diventa il simbolo del desiderio di un uomo inappetente e dell’effimero successo suburbano: «Finché ci sono le rose va tutto bene» si ripete Carolyn mentre la sua vita familiare è al collasso. La bellezza che ne deriva è solo apparente, come quella dei fiori in un vaso, che non portano con sé gemme destinate a fiorire nel tempo: «Lo svuotamento di senso va braccetto con il valore che si nega al futuro – sottolinea Di Paola -. Ma la vita acquista senso nell’impegno: essere sottomessi al ritmo delle piante è un ottimo esercizio per dare un senso politico alla vita del singolo».