La pandemia ha probabilmente cambiato la percezione dell’intervento dello Stato nell’economia, giudicato inevitabile per affrontare i costi delle misure di contenimenti e per investire in infrastrutture che i paesi occidentali si sono accorti di aver trascurato negli ultimi anni.
Secondo un’analisi pubblicata dal Monde, tuttavia, questa tendenza e la quantità di denaro pubblico immesso nell’economia, non segna un ritorno allo Stato keynesiano del dopoguerra: «Questo fenomeno fa parte di un processo avviato dalla crisi del 2008, a causa del fallimento della politica monetaria europea nel rilanciare la crescita nella zona euro, nonché del crescente patriottismo economico internazionale. Tuttavia, questa rilegittimazione delle politiche industriali e di bilancio è ben lungi dal segnalare il ritorno dello stato keynesiano del dopoguerra», scrive Ulrike Lepont, ricercatrice al CRNS dell’università Versailles-Saint-Quentin.
«Costi quel che costi», «La potenza di fuoco», i politici europei hanno utilizzato diversi modi di descrivere l’impegno statale per sostenere l’economia, e questo ha generato anche critiche da parte dell’opinione pubblica più attenta al libero mercato: la pandemia può essere una scusa per tornare allo Stato imprenditore, come tra l’altro si augurano gli economisti più di sinistra?
Secondo Lepont è improbabile: «Innanzitutto, dal punto di vista della politica industriale, gli investimenti pubblici sono progettati secondo obiettivi e modalità diametralmente differenti. Durante il boom economico l’obiettivo delle politiche di investimento era, per lo Stato, strutturare interi settori economici, talvolta nazionalizzandoli, talvolta agevolando le proprie scelte di sviluppo. Ciò significava controllare il mercato e persino, per alcuni settori come l’energia, sostituirlo».
Oggi questo non avviene, perché le politiche di investimento che stanno mettendo in campo Unione europea e in misura maggiore gli Stati Uniti, mirano a favorire lo sviluppo di soggetti privati che dovranno muoversi in una direzione determinata dal potere pubblico, cioè la transizione ecologica. Insomma, lo Stato decide gli obiettivi, non la pianificazione.
La differenza è profonda, continua l’economista, invitando a guardare come i governi hanno deciso di allocare le risorse dei piani di rilancio: «Per fare ciò, ci si affida a strumenti finanziari come prestiti, investimenti azionari sotto forma di capitale di rischio o garanzie emesse principalmente da banche di investimento pubbliche, la cui attività è esplosa nell’ultimo decennio. Tale finanziamento è concesso sulla base della redditività finanziaria dei progetti e della promessa di un “ritorno sull’investimento” per lo Stato, ma senza alcun requisito di contropartita in termini di governance».
Lepont sostiene che un’ulteriore differenza rispetto al dopoguerra sia che lo Stato non investe mai da solo, ma in cofinanziamento con attori privati. In primo luogo perché questo consente di mobilitare più risorse, in secondo luogo perché bisogna sempre e comunque rispettare le regole europee, in terzo luogo perché si è consapevoli che il mercato è più efficiente nello scegliere gli investimenti.
Certo, questo non significa che i governi non tentino di utilizzare le risorse stanziate per favorire la crescita per progetti fallimentari come Alitalia, ma probabilmente la tentazione della politica di intervenire è ineliminabile, e quindi va guardato il quadro generale. E per adesso, scrive Lepont, non è ancora possibile dire che stiamo assistendo al ritorno dell’interventismo novecentesco.
In più, in Francia come in Italia, « l’attuale valorizzazione del ruolo di “investitore” dello Stato non è accompagnato da una rivalutazione della spesa pubblica in genere. Queste spese di investimento sono infatti chiaramente distinte dalle altre spese pubbliche, note come spese operative o ridistributive, che finanziano servizi pubblici e trasferimenti sociali. Così, se il ministro dell’Economia, Bruno Le Maire, il 2 febbraio ha affermato davanti all’Assemblea Nazionale che il debito legato all’investimento era “il debito buono”, ha subito aggiunto di non essere “a favore del debito che andrebbe a costi operativi a lungo termine”»
È un ragionamento ispirato direttamente dal presidente del Consiglio Mario Draghi, che in vari interventi pubblici durante la pandemia e quindi prima di essere chiamato a guidare il governo italiano, aveva sottolineato a più riprese il concetto di «debito buono».