L’identità riformista-liberale non si costruisce in negativo, con espressioni come «non siamo quelli che», ma in positivo, cioè chiarendo con coraggio quali sono i valori, il tipo di società verso cui si tende e le politiche per costruirla.
Nasce da qui, dall’esigenza di trovare dei punti fermi e delle certezze per il fronte riformista, il confronto “Il riformismo, urgente” organizzato dal deputato Luigi Marattin di Italia viva.
Il dibattito, in diretta Facebook, è stato moderato dalla giornalista del Foglio Marianna Rizzini e ha visto gli interventi della professoressa Veronica De Romanis, docente di European economics alla Luiss, il deputato e leader dei Moderati Giacomo Portas, il coordinatore Nazionale di Base Italia Marco Bentivogli, oltre che dello stesso Marattin.
Proprio il deputato di Italia viva introduce l’argomento: «Proviamo a chiarire cos’è il riformismo: è tutto quel che sta tra un’elezione e l’altra, quindi è riformista chi vuole usare quel tempo per trasformare il Paese, per cambiare le cose che non vanno».
Ma occorre innanzitutto individuare il perimetro dei riformisti in Italia, per provare a formulare l’offerta politica più adeguata possibile.
Al centro del tavolo ci sono i temi della globalizzazione e dell’integrazione europea, che per Marattin «non sono né una sciagura, come dicono i sovranisti-populisti, né una cosa da cui proteggersi, come fanno i conservatori. Ma è una delle più belle opportunità del nuovo secolo, da cui l’Italia può trarre molti più vantaggi che rischi».
Questa posizione distante sia dai populismi sia dal conservatorismo però non si rispecchia, in Italia, in un soggetto politico chiaro, definito, inquadrato. «In Italia – dice Marattin – per la domanda populista e sovranista c’è l’offerta di Fratelli d’Italia e della Lega. Chi chiede protezione delle proprie istanze dai pericoli della globalizzazione, come i socialdemocratici, trovano la loro offerta politica in LeU, in una parte del Movimento cinque stelle, ma anche in un segmento del Partito democratico. Noi invece non dobbiamo né ripudiare né proteggerci dalla globalizzazione, semmai cambiare le strutture della società che sono rimaste a prima della globalizzazione, come il nostro sistema fiscale, le nostre regole del mondo del lavoro, la politica industriale».
Le difficoltà di avere un approccio simile, però, sono tutte lì da vedere. D’altronde lo stesso Jean-Claude Juncker, ex presidente della Commissione europea, diceva «sappiamo quali sono le riforme che servono per cambiare, ma non sappiamo come vincere le elezioni dopo aver fatto le riforme».
E in questo particolare momento, le riforme hanno un tracciato da seguire. Che poi è quello indicato dall’Unione europea con le linee guida del Next Generation Eu.
«Ci sono due parole fondamentali: sostenibilità e inclusività», dice la professoressa Veronica De Romanis. «La chiave è che le riforme sono per le future generazioni. Quindi non si possono accettare interventi con uno scopo elettorale ben definito e un orizzonte di breve periodo. Le esigenze sono note: bisogna riformare Giustizia, Fisco, Pubblica amministrazione».
Queste riforme, dice De Romanis, sono diventate una conditio sine qua non con questa crisi: senza una trasformazione dei pilastri dello Stato anche gli investimenti del Next Generation Eu rischierebbero di non trovare il terreno fertile su cui germogliare.
Nel mercato del lavoro gli interventi con un orizzonte temporale ristretto, a breve termine, sono ad esempio quei sussidi a pioggia che sono arrivati dai Cinquestelle quando erano al governo. «Ma la scelta tra sussidi e lavoro non ammette nessun tipo di ambiguità: un conto sonno gli interventi di emergenza per le povertà, un conto è immaginare un futuro con milioni di cittadini sussidiati. Non possiamo dimenticare che il lavoro trasforma una nazione in una democrazia», dice Marco Bentivogli.
Allora ecco cosa diventa l’offerta riformista: «Un riformista punta sul lavoro, inteso come strumento di accesso alla cittadinanza, di mobilità sociale al pari della scuola. Un riformista non muore del ricatto del breve termine, a costo anche di scelte impopolari nel breve periodo: dobbiamo uscire dalle zone di comfort della vecchia politica che danno le colpe alla globalizzazione e costruire l’Italia del futuro immaginando il lavoro del futuro, non demonizzando la tecnologia e l’integrazione».
Trovare un modo per mettere insieme le esigenze di lavoratori e aziende non sarà semplice. «Il lavoro non si fa per decreto», dice Giacomo Portas, leader dei Moderati. «Per questo più che creare delle regole dobbiamo costruire delle certezze per fare in modo che in Italia un imprenditore che investe sia poi premiato dal mercato. Altrimenti gli imprenditori e il lavoro andranno via dall’Italia molto rapidamente».
Politicamente per i riformisti la transizione dal governo Conte due al governo Draghi rappresenta un’opportunità per costruire una proposta concreta e tornare ad avere un ruolo da protagonista in Europa.
I problemi dell’Italia e dell’Unione europea si somigliano in qualche modo, suggerisce Marattin: «Noi abbiamo tre livelli di governo: Comuni, Regioni e Stato, e la pandemia ci ha fatto vedere che non sappiamo chi deve fare cosa. E questa riforma delle competenze fa fatta quanto prima. Allo stesso modo il futuro dell’integrazione europea passa per una ridefinizione delle deleghe a Bruxelles: dobbiamo avere la forza di delegare alle istituzioni ambiente, difesa, ricerca, stabilità finanziaria».
Perché dopotutto anche le istituzioni di Bruxelles hanno bisogno di un ritocco, come ha dimostrato la crisi dei vaccini e i problemi nel gestire la pandemia. «Ma quello che abbiamo visto con i vaccini non è colpa di un’Europa sbagliata, è colpa degli Stati che negli anni non hanno mai accettato di cederle sovranità», dice la professoressa De Romanis.
E così come si può costruire una proposta riformista in Italia, si può riformare anche l’Europa. Con Roma che potrebbe avere un ruolo da protagonista grazie all’esperienza e alla conoscenza del premier Draghi.
De Romanis suggerisce alcuni passaggi indispensabili: «C’è bisogno di nuove regole fiscali, cioè un coordinamento fiscale europeo che ci permetta di non creare instabilità nell’unione monetaria. Poi serve completare l’unione bancaria: al momento non si completa perché l’Unione è divisa tra chi suggerisce di dividere il rischio e chi dice di ridurre il rischio. E poi arrivare alla fase finale della condivisione del rischio e del debito con gli eurobond».