A fine ottobre si voterà a Roma, dove con ogni evidenza Carlo Calenda è il candidato ideale, specie di questi tempi, per amministrare la città meno amministrabile d’Italia, forse della storia. Lo sa anche Enrico Letta che però non lo vuole perché Calenda gli scombinerebbe «l’affascinante avventura» con il già sodale di Putin e Trump cui si è promesso sposo non si capisce bene perché; lo sa anche la destra che infatti non trova un candidato all’altezza del compito.
«Date un pazzo ai liberali», scriveva sul Mondo Mario Ferrara invocando per l’area laica e riformatrice una guida fuori dagli schemi. Di matti veri, pericolosi, oggi siamo pieni, ma va davvero trovato il modo di dare un pazzo a Roma, soprattutto a Roma, perché solo un pazzo di stampo ferrariano può imbarcarsi in un’impresa ciclopica come quella di fare il sindaco della Capitale e dei suoi cinghiali.
Calenda è quel pazzo, uno peraltro che si intestardisce a proporre soluzioni puntuali per i rifiuti e altre amenità amministrative che però non interessano niente al complesso mediatico-politico: vuoi mettere il processo di smaltimento della monnezza con un’intervista a Boccia, con una visione strategica di Bettini, con una velina di Casalino, con un sms di Renzi, con un allarme Casa Pound o, figuriamoci, con un retroscena sulla legge elettorale?
Comunque vada a finire la corsa al Campidoglio, sarà il momento decisivo per capire se l’area liberale, democratica e riformista, la cosiddetta area Draghi, avrà o meno un ruolo nella politica italiana. Nonostante le tante e belle iniziative comuni delle ultime settimane, e malgrado una minore litigiosità pubblica dei leader, l’area è ancora frammentata e soprattutto senza leader. O, meglio, i leader sono due, uno è Mario Draghi e l’altro Matteo Renzi, ma per ragioni diverse, addirittura opposte, entrambi al momento inutilizzabili a guidare uno schieramento politico.
Ecco allora una proposta a tutti gli altri: basta girare intorno, fondate un nuovo partito. Non un’alleanza, non una federazione, non un’unione, ma un partito vero, con un nome semplice tipo Partito liberaldemocratico, preciso, chiare, efficace con dentro tutti, da Italia Viva ad Azione, dagli europeisti agli atlantici, dai liberali ai repubblicani, dai socialisti a quel che resta di Forza Italia, più gli ambientalisti pro crescita e tutto il resto, magari con Emma Bonino come presidente e Carlo Calenda, Mara Carfagna e Maria Elena Boschi a guidarlo. Con Marco Bentivogli, con Sandro Gozi, con i tanti elettori liberal dentro e fuori il Pd, con i tanti elettori liberali dentro e fuori Forza Italia che finalmente potrebbero trovare una casa, una casa senza Conte e senza Salvini, senza Raggi e senza Fontana, senza Casalini e senza Meloni, senza il Fatto e senza la Verità, un riparo sicuro contro la temperie del bipopulismo perfetto italiano.
E con tre punti iniziali di programma: il governo Draghi dovrà continuare fino alla scadenza naturale della legislatura; qualunque sarà la legge elettorale con cui si andrà a votare del 2023, al nuovo Capo dello Stato andrà proposto come presidente del Consiglio ancora Mario Draghi; l’adozione dell’Agenda Biden per ricostruire le infrastrutture, aumentare i posti di lavoro, difendere le famiglie e salvaguardare il pianeta.
Dovrebbe essere Matteo Renzi a prendere l’iniziativa, perché quest’area non può prescindere dall’uomo più influente, nel bene e nel male, del dibattito politico italiano degli ultimi cinque anni, nonché il sempre-sia-lodato defenestratore di Giuseppe Conte e il facilitatore dell’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi (con buona pace della tesi serendipica di Giuliano Ferrara, nipote di Mario e innamorato pazzo di Conte, Bisconte, Conte tris, tappe, tapperugia).
Insomma, a Calenda, Bonino, Carfagna, Bentivogli, Gori e a tutti gli altri che non si rassegnano al populismo serve un’altra mossa del cavallo di Renzi. Anzi questa volta tecnicamente serve un arrocco, una splendida mossa dell’arrocco: una Leopolda costituente, costituente il Partito liberaldemocratico.