Heritage culturaleCome l’Italia può sfruttare il suo soft power per ripartire dopo la pandemia

Il potere di persuadere e di attrarre tramite risorse intangibili come il patrimonio artistico può essere un trampolino di lancio per l’economia. Il nostro Paese dovrebbe rivedere il turismo in un’ottica creativa, valorizzando quella capacità di distinguersi che troppo spesso abbiamo considerato quasi un punto di debolezza

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Il soft power è difficile da definire concettualmente: semplificando, è innanzitutto la capacità di un Paese di attrarre e persuadere piuttosto che costringere. Misurare e avere ben presenti le attività di soft power aiuta a definire meglio i risultati dei settori economici, politici e culturali.

L’Italia gode di una posizione preminente fra i leader globali del soft power. Sorprendentemente otteniamo costantemente un ottimo punteggio nelle classifiche realizzate dalle più importanti agenzie.

Quest’anno, al contrario, l’Italia è scesa dall’11° al 19° posto nel Global Soft Power Index, con un punteggio indice complessivo di 48,3 su 100. Scendendo di otto posizioni, il nostro Paese ha registrato la maggiore diminuzione nella classifica tra le prime 30.

Il calo dell’Italia nell’Indice è interamente dovuto alla percezione della gestione della pandemia da parte della nazione. Questa percezione è il risultato di sfortuna, errori di gestione, un grande divario tra aspettative e risultati e scarse capacità di comunicazione. L’Italia tuttavia conserva un punteggio alto nell’heritage culturale, grazie infatti al ricchissimo patrimonio materiale e immateriale che fornisce una vasta riserva di soft power che difficilmente si esaurirà presto.

Il nostro Paese continua quindi, nonostante l’erosione continua di questa risorsa, a essere considerato una potenza culturale, ciò grazie anche alla sua capacità di veicolare questo concetto attraverso la sua vasta rete internazionale di ambasciate e missioni culturali diplomatiche.

Il soft power italiano è riuscito nel passato, in maniera totalmente inconsapevole, a creare punti di forza attrattiva dalla generazione di ciò che abbiamo ritenuto meri stereotipi provinciali: pizza e mandolino per intendersi. Perciò abbiamo pensato di dover lavorare su un re-package dell’immagine per riposizionare il paese e comunicarlo in modo nuovo, guardando quindi a modelli più “anglosassoni” che abbiamo considerato più vincenti del nostro, per sentirci più uguali agli altri paesi.

Eppure il soft power è proprio, per l’appunto al contrario, la capacità di distinguersi, di stand out. L’abilità del nostro Paese di differenziarsi ed essere diverso dagli altri, che abbiamo considerato quasi un punto di debolezza, viene oggi “imitata” dagli altri paesi e utilizzata come punto di forza.

La differenza è tornata a essere un valore. Ed è la percezione positiva di queste differenze a definire la posizione dei Paesi in termini di influenza internazionale, al di là delle implicazioni economiche.

«Sono proprio le percezioni delle risorse, tangibili e intangibili, del paese a darne l’immagine e a formare l’opinione dei pubblici stranieri» (d’Astous – Boujbel). Le percezioni quindi contano. Danno forma alle nostre scelte quotidiane, a ciò che acquistiamo, dove andiamo e con chi ci associamo. Le percezioni mutano di continuo e velocemente.

Per questo motivo il soft power di un Paese non è stabile, né garantito. It’s hard to be soft. Proprio la difficoltà nel misurarlo, ma anche nel mantenerlo, dà la consapevolezza della sua importanza. E ne abbiamo un chiaro esempio proprio nella gestione della pandemia che ci ha portato a perdere punti proprio per aver creato una percezione negativa nella gestione del problema.

In un mondo che si muove ormai in un tempo quantico, nella smaterializzazione totale dei contenuti, nella mobilità di masse di persone incontrollabili, nella disintermediazione, capire, studiare, monitorare, conoscere come il soft power modifica i comportamenti è essenziale.

In una cornice globale così smaterializzata, il turismo ad esempio non è più un settore a sé stante, ma è fortemente connesso e sovrapposto, lo e sarà ancora di più nel post pandemia. Le suddivisioni sono ormai insufficienti a rappresentare la realtà. La filiera è un concetto obsoleto, si parla di intersezioni, vasi comunicanti, non più di prodotto ma di playful living.

Una complessità che è in realtà un arricchimento, che sta contribuendo e contribuirà a modificare in maniera radicale l’approccio al settore, considerato uno dei maggiori punti di forza economica e sociale dell’Italia.

Il turismo è diventato parte del vivere quotidiano, e anzi sempre più vissuto come un diritto alla qualità della città. I turisti hanno smesso di essere una categoria delimitata nel tempo e nello spazio, ma sono una specie in costante evoluzione, cambiano pelle più volte in una stessa giornata e spesso da un momento all’altro.

In questo modo cambia anche quello che viene definito turismo culturale. Non più solo musei e monumenti ma nuovi modi di cercare e trovare se stessi attraverso esperienze attive: di co-creazione, di residenza, di shopping, di sperimentazione del diverso, tutto questo reso maggiormente desiderabile e applicabile non appena si potrà ripartire immunizzati.

Un turismo creativo, post-culturale, che allarga il concetto stesso di cultura: dal museo al laboratorio artistico, dal festival letterario alla cucina, il concetto è coinvolgimento, partecipazione.

Questa componente di immersione nella realtà culturale e creativa del paese che si visita, caratterizza anche altri segmenti, come quello congressuale, lo shopping, andare per aziende per sperimentare il processo produttivo, oppure visitare ville e castelli per ispirazioni di interior design o silver houses o case di cura. E la traslazione totale nella ibridazione reale/virtuale.

Il place branding, declinato anche nella realtà aumentata non più come solo parte “preparatoria” all’esperienza reale, sta contribuendo a modificare l’approccio, così come il Create in Italy al posto del made in Italy.

Ma è la crescita dell’importanza che stanno assumendo i musei a farci focalizzare su una realtà che spesso non risulta in maniera evidente. Sono oggi i musei nel mondo a guidare il turismo, il place making, gli scambi internazionali, lo sviluppo economico, i programmi educativi e lo sviluppo della comunità.

Ciò che stanno dimostrando il Louvre di Abu Dhabi, il Museo Nazionale del Quatar, il Palazzo di HK, il Museo del Futuro di Dubai, La Tate di Londra, è che i musei hanno riconquistato quello che era il loro ruolo nel passato: creare le Nazioni, attraverso la massima espressione cioè il potere culturale del Paese.

Un potere che oggi conta più che mai, come è dimostrato dal fatto che l’enorme potenziale politico di questo specifico soft power è ora sempre più sfruttato dalle potenze internazionali per “distinguersi” nella scena mondiale.

Lo dimostra la Cina, che ha annunciato un imponente programma culturale statale con la costruzione di una intera città, completamente nuova, dedicata interamente all’arte, ai musei, a spazi espositivi, con l’idea di attirare visitatori da tutto il pianeta. Tutte cose che noi in Italia abbiamo ricevuto in eredità e che abbiamo sempre date per scontate.

Il nostro paese infatti ha quindi da sempre fatto del soft power la leva di “persuasione dolce” e quindi di sviluppo, ed è stato, ed è ancora, uno dei fattori che ci rendono importanti e su cui basiamo molto del nostro credito e che produce i punteggi più alti in assoluto nei ranking per lo stimolo più forte alla motivazione di visita dei turisti in tutto il mondo.

Sempre nel Soft power Index 2021 abbiamo un’altra sorpresa: il punteggio dell’Italia sull’indice millenials è nella parte alta dello score, perché giudicata friendly and fun nella reputazione fra i giovani.

L’Italia facilita un gran numero di programmi di scambio di studenti, il che si traduce in un aumento delle risorse di soft power poiché si crea un effetto a cascata nella Cultural diplomacy generata sia dai nostri studenti all’estero, che dagli studenti stranieri che quando tornano a casa raccontano in maniera positiva la propria esperienza di viaggio studio in Italia.

Ma questo non è più sufficiente e rischia di far presto percepire il Paese come una sorta di mero parco a tema. Inoltre nuovi attori sono entrati in scena in maniera dirompente, società che operano al di là dei Paesi, oltre gli Stati, oltre i governi e che sono di fatto essi stessi creatori di soft power. I nuovi partecipanti a questa corsa globale sono entità private che si chiamano Netflix, Facebook, Apple, Whatsapp, Twitter e questi attirano i giovani, e quindi i protagonisti del futuro, in maniera molto più profonda del puro divertimento.

Chi finisce infatti per controllare i più potenti strumenti di soft power, sia digitali che più ampiamente culturali, può esercitare la maggiore influenza sui cittadini in qualsiasi parte del mondo. Occorre dunque la cooperazione di diverse forze (stakeholders, policymakers, media, etc.) per dare una positiva immagine del paese, in una sorta di circuito virtuoso in cui le azioni di ogni attore si riversano sugli altri.

Occorre dunque andare oltre il soft power per creare un superpower: partire da una storia/Paese, raccontarla e sapere bene quando e come declinarla insieme agli altri strumenti a disposizione. Per fare in modo, parafrasando Robert Louis Stevenson, che il «turismo non sia l’arte della delusione».

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