Contro l’impigrimento socialeLa città da 15 minuti e la nuova idea di prossimità

La vita nelle città può cambiare, influenzando in modo positivo le relazione e i rapporti tra le persone. Come spiega Ezio Manzini nel suo libro pubblicato da Egea, riorientare i servizi, in modo da rendere tutto accessibile e vicino, permetterebbe di liberare tempo e spazio per i cittadini

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Il tema è tornato al centro del dibattito. Se ne parla, se ne discute e si è anche trovata una formula che lo riassume in modo convincente: “città da 15 minuti”, che indica un nuovo modo di vivere la prossimità, sia in senso fisico che in senso relazionale.

L’idea è di riorganizzare i quartieri, redistribuire i servizi, affrontare (era ora) il nodo del traffico, abbandonando il principio dello zoning e, soprattutto, costruire una socialità nuova.

È un progetto ambizioso, lo si cerca di fare in città come Parigi e Barcellona (adesso anche Milano) e richiede un cambiamento profondo, a partire dalla mentalità. «È una nuova idea di prossimità», spiega a Linkiesta Ezio Manzini, autore per Egea di “Abitare la prossimità. Idee per la città dei 15 minuti”, in cui fa il punto della situazione e fissa alcune traiettorie da seguire, che portano dalla rottura rispetto ai modelli del passato fino alla definizione di una nuova realtà post-pandemica.

«L’espressione “città di 15 minuti” coglie bene la dimensione funzionale del progetto. Ognuno trova tutto ciò che è necessario vicino a casa, in un raggio appunto di un quarto d’ora».

È una soluzione «con molti vantaggi. Diminuisce il traffico complessivo, aumentano gli spostamenti a piedi e ne risulta un beneficio per l’ambiente». Ma è anche un modo per intervenire nella vita, e nella dimensione collettiva e sociale.

«La vicinanza regala a ciascuno più tempo. La diminuzione del traffico permette una maggiore liberazione dello spazio pubblico. La somma delle due condizioni porta a un aumento della possibilità di fare incontri. Le persone si vedono, si riconoscono, cominciano una conversazione che sfocia in idee e progetti».

Come spiega nel libro, la differenza sostanziale rispetto alla città del passato è che, in quella, la costruzione della comunità funzionava in modo lento, tanto da apparire naturale. Il bene comune era un patrimonio collettivo ereditato dalla tradizione. Adesso quella realtà non è riproducibile, serve perciò uno sforzo di volontà: i beni comuni diventano «intenzionali», che vengono prodotti «per scelta ed emergono da un’attività di progetto». Di conseguenza, anche la prossimità diventa «intenzionale». In altre parole, va costruita e incoraggiata attorno a una popolazione che non ha radici (per forza) e che basa su altro la propria identità e le proprie strutture relazionali.

Ma come? «Non è facile. C’è molto da cambiare. Adesso la città contemporanea è quella delle solitudini connesse. Aumentano le persone isolate, soprattutto quelle anziane. E la società contemporanea è senza cura, è una careless society».

Anche qui, il termine attraversa più accezioni: è l’attenzione per il prossimo, che è intrinseco a una città di prossimità. Ma è anche la cura delle istituzioni nei confronti dei cittadini più deboli. Ed è, infine, la cura intesa come terapia, cioè il risultato di un’azione di cura.

Oggi, al contrario, prevale la distanza «tra luoghi – dal lavoro a casa, per esempio – e tra persone» costrette a muoversi in un modello di città definita sulla base della funzione: dal quartiere residenziale a quello degli uffici. «Quando c’è distanza, anche fisica, è impossibile che ci sia anche cura». Il progetto è riavvicinare la città, definendo lo spazio urbano.

Ma come? «Le relazioni umane non si progettano», continua Manzini. «Puoi obbligare le persone a fare qualcosa, ma non a sentire qualcosa. Le emozioni, gli interessi, le amicizie e le relazioni non si impongono».

Ma si possono incoraggiare, «come in una sala da ballo. Ecco, teniamo questa immagine. In una sala da ballo si fanno incontri, nascono rapporti che portano a niente oppure a un matrimonio. Le città di oggi sono il contrario di una sala da ballo». Perché lo diventino serve, prima di tutto, «il locale. Cioè un’architettura, spazi e strutture fisiche in cui le persone si incontrano. Poi ci vuole la gente, ma che sappia ballare. Occorre, fuor di metafora, un sapere sociale diffuso, una capacità relazionale condivisa, un linguaggio di base comune. Questo deve essere un insegnamento di base delle scuole». Infine, «serve la musica, cioè qualsiasi cosa che dia degli stimoli per ballare, qualsiasi oggetto relazionale introdotto da una mobilitazione di interessi ed energia. Può essere, ad esempio, la cultura».

Applicare questo modello e trasformare la città in una grande pista da ballo significa insistere su «mobilità alternativa, o sui community garden, sui coworking, le feste di quartiere». Tutte cose che richiedono organizzazione, volontà, partecipazione.

Il rischio è di restare confinati nella città della solitudine, «che si sta trasformando in un altro modello, quello del “tutto a casa”, la città Amazon, per capirsi».

Uno scenario «che ha dietro una potenza enorme. In questo periodo di pandemia abbiamo riscoperto la prossimità, la cura. Ma anche la città casalinga. Il rischio di questo modello è una sorta di impigrimento sociale».

Tutto viene lasciato alle connessioni digitali, la prossimità è solo virtuale e la vicinanza fisica non conta più. In un mondo che sarebbe l’opposto della città dei 15 minuti, degli incontri e delle relazioni.