Nell’ultimo anno i manifestanti per il clima hanno saputo alzare la voce e farsi sentire nelle piazze e nelle città. Lo hanno fatto con una minor presenza in strada ma con un’attività online più diffusa e frequente. Perché, nonostante abbia catalizzato tutte le attenzioni, il virus non ha potuto nascondere gli incendi devastanti in California, Brasile e Australia, né la morte di decine di migliaia di uccelli nel Sud-Ovest degli Stati Uniti o l’invasione di locuste nel Corno d’Africa.
Negli ultimi anni, il movimento ambientalista ha saputo dotarsi di una credibilità e di una dimensione che non aveva prima, costruendo la sua rete di attivisti attorno al volto più riconosciuto e riconoscibile, quello di Greta Thunberg. La ragazza di Stoccolma, 18 anni compiuti lo scorso 3 gennaio, ha rianimato un movimento e un sentimento ambientalista che prima del 2018 sembravano sopiti, incapaci di accendere davvero l’interesse delle persone e ancora meno di condizionare le decisioni politiche.
Qualche numero può aiutare a inquadrare il discorso: nel 2019, quando le proteste in presenza non erano un problema per la salute pubblica e non erano soggette a restrizioni, nella settimana dal 20 al 27 settembre gli scioperi per il clima hanno coinvolto circa 4.500 città in 150 Stati in tutto il mondo. È un movimento che ha portato in strada, secondo le stime, tra i 6 e gli 8 milioni di persone in quella che, con buona probabilità, rappresenta la più grande mobilitazione per il clima della storia.
Fin dal primo sit-in davanti al Parlamento svedese nell’agosto 2018, il messaggio di Greta Thunberg è stato trasparente, diretto, fermo: la crisi climatica è un’emergenza, si sta trasformando in una minaccia per l’uomo e va affrontata il prima possibile. In poche settimane, è diventata la figura di riferimento del movimento ambientalista, poi un’icona globale: poco più di un anno dopo, la rivista Time l’ha scelta come “Persona dell’anno” ed è diventata una candidata al Premio Nobel per la pace.
La forza del suo messaggio è arrivata ovunque, almeno in teoria. Il nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden, subito dopo l’insediamento alla Casa Bianca, ha firmato diversi ordini esecutivi sul tema della protezione dell’ambiente e del contrasto al cambiamento climatico, cioè due dei temi più snobbati da Donald Trump. La Cina sembra aver intrapreso un percorso simile quando ha dichiarato di voler diventare un Paese a zero emissioni entro il 2060, con l’obiettivo di iniziare a ridurle già prima del 2030.
I progetti più ambiziosi in questo senso, però, sembrano quelli dell’Unione europea: a settembre 2020, proprio poco dopo un altro giro di manifestazioni per il clima in tutto il mondo, Bruxelles ha alzato l’asticella del suo Green Deal, annunciando di voler ridurre entro il 2030 i gas a effetto serra del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990.
Almeno sulla carta, si tratta dell’impegno più sfidante tra tutti quelli presi dalle grandi economie mondiali. Il cambiamento di prospettiva è reale: come scriveva il New York Magazine a gennaio, «l’era del negazionismo climatico è finita, un po’ perché le condizioni meteorologiche sono estreme ed evidenti, un po’ per il grande impegno degli scienziati e degli attivisti. Oggi la questione ambientale non è un tema sollevato solo da alcuni manifestanti in piazza, ma è una delle grandi sfide globali riconosciute da tutti».
È difficile immaginare il nuovo protagonismo delle istanze ambientaliste senza la leadership alternativa di Greta Thunberg. Non un comandante in capo di quelli che si trovano negli scritti di Sun Tzu o in un manuale di geopolitica contemporanea.
Ma il motore di un movimento che aveva solo bisogno di trovare nuovi impulsi per tornare a crescere, anche attraverso internet: negli ultimi due anni sono nati numerosi siti che raccontano, con i numeri o con le immagini, l’emergenza climatica; basta googlare i termini “protesta” e “ambiente”, o qualsiasi combinazione dei loro sinonimi, per trovare l’attivista di Stoccolma in tutte le sue espressioni pubbliche; e, cercando sui social gli hashtag con il suo nome, si può trovare qualsiasi contenuto che riguardi l’emergenza climatica.
L’immagine di Greta Thunberg è perfettamente sovrapponibile a quella del movimento ambientalista. Ormai sono praticamente sinonimi. La co-direttrice del Precourt Institute for Energy della Stanford University, Sally Benson, l’ha definita «una leader catalizzatrice», spiegando che, grazie a lei, «stiamo assistendo a un numero molto più elevato che in passato di gesti in favore dell’ambiente, merito soprattutto della sua capacità di mobilitare molti giovani fino a influenzare il dibattito politico di città, Stati, organizzazioni internazionali e aziende».
Per Greta Thunberg è diventata anche una responsabilità. Lo ha detto lei stessa, in un’intervista a National Geographic: «Certamente ciascuno di noi è responsabile e può avere un ruolo. Ma maggiore è la tua visibilità, maggiore è la tua responsabilità. Così come più grande è il tuo potere, maggiore è la tua responsabilità. E più grande è la tua impronta di carbonio, maggiore è il tuo dovere morale.
Quindi, visto che ho un seguito molto vasto, sento di avere anche maggiori responsabilità: ora devo usare questi canali, o comunque vogliate chiamarli, per educare, diffondere la consapevolezza e il messaggio per il clima. Tutte queste risorse a mia disposizione forse un giorno spariranno. Voglio dire, non rimarrò così per molto tempo. Presto la gente perderà interesse in me e non sarò più, diciamo, “famosa”».
È una fama che nemmeno voleva, come ha spiegato più volte («Non mi vedo come un modello, è una posizione a cui non aspiravo»). E forse proprio per questo lei stessa potrebbe pensare di mettersi in secondo piano, di restare sullo sfondo: il movimento potrebbe camminare sulle proprie gambe, senza la persona che ne ha ritrovato la scintilla. Sembra un destino che tocca a tutti i movimenti di protesta: all’inizio c’è la fase di maggior attivismo, crescono i consensi, la portata, l’impatto.
Nel tempo, la voce si fa più insistente e trova forza nei simboli e nelle icone che ne veicolano il messaggio. Poi, però, questo sentimento va trasmesso al resto della società e alle istituzioni. E, dopo un po’, le proteste si affievoliscono nella loro dimensione fisica, quella più visibile e rumorosa, per entrare nella politica e nella quotidianità di ogni cittadino.
Si può notare un parallelismo con le proteste del movimento Black Lives Matter esploso nella scorsa primavera, dopo l’omicidio di George Floyd a Minnneapolis: nel giro di pochi giorni le manifestazioni si sono diffuse prima in tutti gli Stati Uniti, poi nel resto del mondo.
La voce di chi reclamava diritti civili ha trovato un megafono anche nello sport e nella cultura pop, nel volto riconoscibile di atleti, musicisti e attori.
Alla fine dell’estate, l’impatto di quelle proteste non era più visibile in strada – o quanto meno non lo era come prima – ma era rimasto impresso negli occhi e nella memoria di milioni di americani. È un sentimento che a novembre si è tradotto nelle Presidenziali con il maggior numero di elettori alle urne nella storia degli Stati Uniti: elezioni che, non a caso, hanno premiato il candidato più vicino alle richieste di quelle manifestazioni.
Allora forse anche la palla dell’ambiente adesso è nel campo dei governi nazionali, delle istituzioni internazionali, delle grandi aziende. Forse le proteste non hanno più bisogno di riconoscersi in Greta Thunberg. O forse, al contrario, il movimento ambientalista non ha ancora esaurito la sua carica: non è stato raggiunto un obiettivo, perché in realtà un vero obiettivo non c’è: «Le proteste vogliono essere sempre attive per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’emergenza climatica», dicono gli attivisti.
In questo caso ci sarebbe ancora bisogno di un interlocutore forte. Ci sarebbe ancora bisogno dell’attivista più famosa del mondo.