Il plaid del sabato seraIl coprifuoco non lo rispetta nessuno, ma si sentono ancora tutti al confino

Si può rientrare alle 23, cioè all’ora alla quale si stava tranquillamente fuori quando il limite era alle 22. Tranne noi anziani che alle nove siamo già con la coperta sulle gambe, ma se lo diciamo ci accusano di non capire i sacrifici della popolazione

LaPresse - Claudio Furlan

Intorno ai sedici anni, andavo a ballare al Controsenso. Il Controsenso era una discoteca di Bologna grazie alla quale principiò la mia educazione al camp – fu lì che sentii per la prima volta “Nell’aria” di Marcella Bella – e agli stilisti: fu lì che, vedendo cubiste vestite divinamente e chiedendo loro «dove l’hai preso», cominciai a fare ciò che fanno tutte le adulte cui piace la moda, ovvero comprare vestiti che la vita poi non mi avrebbe dato occasioni per mettere.

Devo avere ancora, da qualche parte, il vestito coi petali, una roba rosa e verde acido che comprai per sentirmi come la cubista figa del Controsenso, e che oggi non saprei dove indossare, giacché alle otto ho già cenato e sono già in pigiama (d’inverno, alle sei).

Il dramma d’appassionarsi alle discoteche in età scolastica è che i genitori ti dicono che a mezzanotte devi essere a casa, sennò domani poi mica ti svegli e hai già fatto troppe assenze. Per fortuna, sotto alle scale della mia cameretta, opportunamente situata in quelli che erano stati gli appartamenti della servitù, c’era l’ingresso di servizio: potevo uscire quando già tutti dormivano e andare a dimenare il mio culone giovanile dentro al vestito coi petali.

Se ci ripenso, mi chiedo chi fosse quella lì. Quella per cui uscire la sera era così importante. Quella che tentava invano di spiegare a genitori che la guardavano come i loro genitori avevano guardato quei capelloni dei Beatles che non si può andare in discoteca e andarsene a mezzanotte: prima di mezzanotte la musica neanche comincia. Quella che non solo stava in posti rumorosi nei quali oggi non entrerebbe se non adeguatamente retribuita, ma ci stava pure fino a molto tardi.

Era un’altra, questo è chiaro. Talmente un’altra che, quando la mattina suonava la sveglia perché alle otto e un quarto cominciavano le lezioni, spesso e volentieri la spegneva e si rimetteva a dormire. In cima alle clamorose ingiustizie delle età della vita c’è quella per cui, negli anni in cui devi per forza svegliarti alle sette, dormiresti con naturalezza fino a mezzogiorno; e, negli anni in cui ti sei organizzata la vita in modo da non avere orari, non ti svegli più tardi delle sei neanche se hai preso un numero di sonniferi da suicidio cinematografico.

Sabato sera sono andata a vedere uno spettacolo teatrale che finiva alle nove. Dopo dovevamo cenare, e l’unica possibilità era farlo al ristorante del teatro, giacché i ristoranti normali, chiudendo alle dieci per il coprifuoco, alle nove e mezza mica ti facevano sedere.

Al ristorante del teatro abbiamo mangiato malissimo e siamo state sollecitate a sbrigarci a finire il vino giacché lo scontrino doveva essere emesso entro le 22. Poi abbiamo preso il metrò, ci siamo soffermate a chiacchierare, e infine ci siamo separate per andare in due direzioni diverse, ed è stato allora che ho cominciato a preoccuparmi.

Era la prima volta, da che vigeva il coprifuoco, che mi trovavo fuori casa fuori orario, come quando scappavo per andare al Controsenso, e avevo letto che la ricevuta del ristorante fungeva da giustificazione: potevi rientrare dopo le 22, se fino alle 21 e 59 avevi fatto girare l’economia. Ma il ristorante l’aveva pagato la mia amica: come avrei dimostrato la mia legalità ai solerti gendarmi che mi avessero fermata? Avrei dovuto dar loro il suo numero, chieder loro di chiamarla e di farsi giurare che m’aveva offerto la cena? Che figura da pezzente, forse era meglio farsi arrestare per violazione del coprifuoco.

Poi sono arrivata alla stazione Garibaldi, e nelle strade là intorno c’era più gente di quanta ce ne sia di solito alle otto del mattino: erano le 23, mi ero persa qualcosa? Non c’era neanche un gendarme né coi pennacchi né senza: si fidavano che rispettassimo spontaneamente le regole? Noi italiani legalitari per vocazione? C’era un margine di tolleranza d’un’ora? Era la primavera, pareva brutto sanzionare tutti quelli fuori dopo le dieci? (In caso, preferirei cominciassero sanzionando tutti quelli col naso fuori dalla mascherina, grazie).

Adesso, il coprifuoco è slittato alle 23: giacché, se la popolazione se ne fotte di quello fino alle 22, allargare le maglie della regola è sicuramente una soluzione efficace. Sui giornali si discetta del possibile trauma di ritrovarsi di nuovo liberi dopo un lungo isolamento. Ma dove? Ma quale? Ma quelli che scrivono sui giornali vivono su Marte?

Perché qui è passato un anno da quando ci si poneva il problema di quante centinaia di metri da casa fosse consentito allontanarsi. Un anno in cui, a parte i poveri ristoratori richiusi e riaperti come l’asfalto in quello sketch di Paolo Rossi degli anni Ottanta, noi abbiamo fatto quello che ci pareva, come nella Casa delle libertà di Corrado Guzzanti.

Ma, credo di averlo già detto, conta solo la percezione, e noi ci percepiamo al confino. Qualche tempo fa Luca Bizzarri ha twittato che a lui del coprifuoco alle dieci non importava granché, visto che alle nove già dorme, e se avesse twittato che le vostre mamme son delle poco di buono avrebbe ricevuto reazioni più pacate.

Persino dire che oggi col cazzo che usciresti di nascosto per andare in discoteca è offensivo: e ai proprietari delle discoteche impoveriti non ci pensi? Persino dire che alle otto sei già in pigiama è irrispettoso: e agli stilisti di abiti da sera sull’orlo del fallimento non ci pensi? Persino il mio culone è oltraggioso, lancia un messaggio menefreghista nei confronti delle palestre, i cui gestori vengono intervistati dai giornali col pathos che una volta si riservava ai terremotati, io qui che culoneggio e loro che non sanno come pagare gli allenatori (ne ho visti un po’, con le loro brave magliette con logo della palestra, far lezione nei prati, e mi sono detta: non sarà che la pandemia ha fatto nascere negli italiani uno straccio di spirito imprenditoriale? Temo che questa parentesi sia ingiuriosa nei confronti dell’imprenditoria italiana tutta).

Credo costituisca grave insolenza anche la rievocazione del mio vestito coi petali, evidente sberleffo nei confronti dei poveri fiorai che questo anno senza eventi e matrimoni ha gettato sul lastrico. Per fortuna ora potranno star fuori fino alle 23: sai che consolazione.

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