Nel presentare alle istituzioni e all’opinione pubblica le priorità della sua presidenza semestrale (1° gennaio- 30 giugno 2021), il governo portoghese aveva messo l’accento sulla dimensione sociale come segno distintivo di un’unione capace di rispondere alle attese delle cittadine e dei cittadini europei.
La proposta, rivolta ai governi, alla Commissione e al Parlamento europeo ma anche ai partner sociali e alla società civile, era l’organizzazione a Porto di un Vertice Sociale da cui avrebbero dovuto scaturire precisi orientamenti politici e un calendario vincolante per tradurre il Pilastro dei diritti sociali adottato all’unanimità a Göteborg nel novembre 2017 ma anche la Carta dei diritti in direttive, regolamenti e raccomandazioni capaci di far compiere all’Unione un salto rilevante sulla via di quel che qualcuno aveva giustamente chiamato Social Compact come alternativa allo sciagurato Fiscal Compact che molti danni ha provocato nella coesione economica e sociale europea.
Appariva evidente che gli effetti a lungo termine della pandemia sul mercato del lavoro ma più in generale sulle società europea rendevano ancora più necessaria ed urgente l’implementazione del Pilastro Sociale di Göteborg in atti giuridicamente vincolanti da adottare entro l’attuale legislatura europea.
Pur nei limiti di un approccio pragmatico – che a noi era parso in alcuni casi eccessivamente prudente – la Commissione europea ha svolto il suo compito di istituzione dotata del potere di iniziativa inserendo nel programma legislativo del 2021 l’annuncio di alcune proposte rivolte al Consiglio e al Parlamento.
La Commissione ha soprattutto presentato a febbraio un piano d’azione in cui sono state indicate le fasi per la realizzazione di una più ambiziosa Europa sociale indicando con precisione i casi in cui si sarebbe dovuto procedere con direttive, regolamenti o raccomandazioni con atti normativi per dare risposte ai problemi della sicurezza sociale e della protezione dei lavoratori, delle condizioni del lavoro, della parità e della solidarietà intergenerazionale, della lotta all’esclusione sociale a cui riteniamo debba essere aggiunta la democrazia economica sapendo che questi problemi non possono essere risolti soltanto da misure di carattere finanziario.
Non soltanto la Commissione europea ha preso sul serio l’annuncio del governo portoghese di un Vertice destinato ad aprire la strada del passaggio da una dichiarazione di principi (il Pilastro di Göteborg) a un insieme di atti giuridicamente vincolanti (un Social Compact) ma la preparazione di Porto ha mobilitato il Parlamento europeo che ha adottato a larga maggioranza in dicembre una sua articolata lista di priorità e poi naturalmente il Comitato Economico e Sociale, il Comitato delle Regioni, la Confederazione Europea dei Sindacati, la Piattaforma Sociale, la Rete Europea di lotta alla povertà, fondazioni come quella del PSE e reti della società civile.
Secondo il modello adottato a Göteborg nel 2017, l’incontro di Porto è stato allargato alle parti sociali e ai rappresentanti delle organizzazioni della società civile affinché le prospettive di un’Europa sociale più ambiziosa fossero anche il frutto di un dialogo diretto con le istituzioni.
Poiché il Vertice avrebbe dovuto tradursi in una riunione dei Capi di Stato e di governo nel quadro del Consiglio europeo che, in base al Trattato, avrebbe dovuto dare all’Unione gli impulsi necessari per lo sviluppo della sua dimensione sociale, spettava a Charles Michel – presidente del Consiglio europeo – convocare i suoi colleghi a Porto indicando che sarebbero state adottate per consenso (e dunque non necessariamente all’unanimità) delle conclusioni sulla base del Piano di azione presentato dalla Commissione in febbraio e tenendo conto degli orientamenti del Parlamento europeo.
Sapendo quanto sia stata impervia la strada dell’Europa sociale dal Trattato di Maastricht fino a quello di Lisbona passando dalla Convenzione sull’avvenire dell’Europa, eravamo coscienti degli ostacoli che sarebbero sorti nella preparazione di Porto.
Infatti, il primo macigno è stato collocato da undici governi che hanno dato una loro interpretazione restrittiva del principio di sussidiarietà applicato all’occupazione e alla politica sociale ribadendo il ruolo preponderante degli Stati nazionali rispetto all’Unione europea.
Un secondo macigno è venuto dalla cancelleria Angela Merkel che, già inspiegabilmente assente a Göteborg nel novembre 2017, ha annunciato che non sarebbe venuta a Porto «nel rispetto delle restrizioni legate al COVID-19».
Per evitare che i dissensi fra i governi impedissero di giungere a delle conclusioni consensuali, l’incontro di Porto ha assunto le caratteristiche di un workshop sulla dimensione sociale in modo che gli effetti della pandemia sul mercato del lavoro, l’aumento della povertà, la situazione drammatica dei precari e le conseguenze della crisi sui giovani, sulle donne e sui lavoratori di paesi terzi insieme alle piccole e medie imprese potessero essere affrontati in un dibattito aperto.
La “Dichiarazione di Porto” fissa così obiettivi condivisibili ma non vincolanti fino al 2030 in materia di occupazione e lotta alla povertà ma non assume ancora impegni sulle politiche comuni che erano contenute nelle proposte della Commissione.
Un esame più approfondito del Piano di azione è dunque rinviato al Consiglio europeo di fine giugno nella speranza che siano superati o ridotti i contrasti fra i governi con un inevitabile slittamento del calendario previsto per l’apertura dei negoziati sulle proposte di direttive, regolamenti e raccomandazioni che erano state annunciate dalla Commissione.
Come è stato affermato da David Sassoli all’apertura della Conferenza sul futuro dell’Europa, l’impervia strada dell’Europa sociale conferma la necessità e l’urgenza di riaprire il cantiere della riforma dell’Unione moltiplicando le iniziative politiche e le proposte della società civile perché dai dibattiti nella Conferenza provenga un forte impulso alle istituzioni europee (Consiglio, Parlamento e Commissione) affinché agiscano senza ritardi per avviare nuove politiche comuni e perché dall’azione o dall’inazione delle istituzioni emergano con maggiore evidenza le criticità del sistema europeo nella ripartizione delle competenze fra l’Unione e gli Stati membri e nei meccanismi di decisione e di governo da sottoporre prima alla Conferenza.
Tutto ciò in vista del futuro lavoro del Parlamento europeo che noi auspichiamo di natura costituente.