Se la democrazia liberale sta in piedi sui tre poteri distinti e reciprocamente bilanciati – legislativo, esecutivo, giudiziario – tanto la loro consistenza quanto le loro relazioni reciproche sono sottoposte oggi a una violenta e rapida erosione. È il Covid bellezza!
L’esecutivo è quello che sta meglio, al momento, nonostante l’ebollizione permanente del pentolone dei partiti, che si disputano a dadi la tunica di Draghi come il tribuno romano Marco Gallio-Richard Burton quella di Cristo in croce, nel famoso film omonimo (The Robe, ndr). Quest’ultimo lemma rende la posta in gioco che i partiti tentano di strapparsi di mano a vicenda.
Sta meglio, perché è protetto dall’Unione europea, dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, da Mattarella e dall’emergenza Covid. Starà già peggio, quando incomincerà il semestre bianco e quando il Covid allenterà la presa. Nessuno oggi è in grado di prevedere lo scenario disordinato dentro il quale si eleggerà il nuovo presidente della Repubblica.
Neppure il legislativo sta benissimo. Da un anno e mezzo la gestione governativa del Covid lo ha tagliato fuori. Un diluvio di Dpcm lo ha messo ai margini. Ha smesso di funzionare, cioè di esercitare una funzione. Nel frattempo, il Parlamento si è dato da fare per autodemolirsi, con la riduzione del numero dei parlamentari. Che sarebbe stata benvenuta dentro un quadro di riforme istituzionali, di cui l’abolizione del bicameralismo era la prima. Invece è stata così ridotta a merce di scambio per una boccata d’ossigeno in più al poi defunto governo Conte.
Quanto al potere giudiziario, non è necessario aggiungere qui molte righe. Il Consiglio superiore della magistratura da organo di autogoverno si era trasformato in governo degli altri poteri, era diventato l’arbitro della politica e dei governi. Ora giace nella polvere come una delle tante gigantesche statue dei tanti dittatori. Riemerge così con grande evidenza un’anomalia strutturale: mentre il legislativo e l’esecutivo sono eletti dai cittadini, il primo direttamente, il secondo indirettamente, il potere giudiziario non è eletto da nessuno. È una branca dell’Amministrazione dello Stato. È un potere amministrativo, autoreclutato con regole da esso stesso stabilite.
Ma, contemporaneamente, è un potere politico, che è arrivato a tenere sotto controllo e, eventualmente, sotto scacco gli altri due, come empiricamente si è potuto constatare dagli anni ’90 fino a oggi. La mancata separazione tra Pubblici ministeri e Giudici, l’irresponsabilità civile dei giudici e l’obbligatorietà dell’azione penale – divenuta in realtà discrezionale, a seconda delle Procure – ha generato un unico Corpus mysticum e hanno sollevato un’onda anomala di proporzioni gigantesche che ha travolto gli altri due poteri. Ora si sta suicidando.
Ora, se salta il tappo Mattarella-Draghi – l’espressione non è molto politologica, ma rende l’idea – ci troveremo nel giro di un anno di fronte a una drammatica crisi di sistema. Finora si è tenuta a bada attraverso un presidenzialismo all’italiana, di cui sono stati protagonisti in misura crescente i Presidenti della Repubblica, da Cossiga in qua.
Fin qui non abbiamo ancora detto della condizione dei partiti, che sono l’architrave nascosta dell’intero edificio istituzionale, così costruito a partire dal Comitato di Liberazione Nazionale, costituitosi il 9 settembre 1943, un giorno dopo la catastrofe della Patria. Poiché i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale sono i fondatori della Repubblica e i rianimatori – in senso ospedaliero – del vecchio Stato amministrativo, la loro scomparsa dalla società civile e la loro trasformazione in apparati di governo e di stato – mediante infiltrazione in ogni ganglio di quest’ultimo – è, a tutti gli effetti, la causa ultima e finale della prossima crisi del sistema istituzionale e del sistema-Paese.
Conclusione: ci troviamo davanti a un bivio. O invertiamo la rotta o rotoleremo lungo un clinamen senza fine. Il declino può essere dolce e indolore come un’eutanasia. Quando san Benedetto lasciò Roma, alle soglie del 500, per recarsi in eremitaggio, la città era felicemente spensierata, consumista, gaudente… La società signorile di massa? Roma era già morta e non lo sapeva.
L’Europa ci terrà la mano sulla testa? Forse. Ma intanto alcune nazioni europee – e non – ci stanno già trattando come un campo di scorrerie dei molti Carlo VIII, che attraversano le Alpi e il mare. E il mitico popolo, i cittadini che pensano di tutto ciò? Non si percepisce al momento l’insorgere di nessuna nostalgia autoritaria, di nessun fascismo alle porte, di nessun rifiuto della democrazia.
Non c’è nessuna crisi della domanda democratica. Anzi: in questi decenni, mentre il sistema politico-istituzionale veniva eroso in profondità, è cresciuta la voglia di partecipare direttamente agli affari pubblici. La stessa narrazione leggendaria della “democrazia diretta” e dell’“uno vale uno”, oggi miseramente autosoffocata, nascondeva un nocciolo razionale: quello dell’impegno diretto e non mediato partiticamente nella vita pubblica.
La crescita della volontà di partecipazione è alimentata dalla maggior quantità e pervasività dell’informazione, e dalla diffusione della scolarizzazione – ancorché controbilanciata da un forte analfabetismo funzionale – dalla pretesa, spesso mal fondata, di sapere quasi tutto.
La domanda democratica è il punto di intersezione di due istanze: quella di scegliere direttamente il proprio rappresentante, visto che l’esercizio quotidiano della democrazia diretta appare tecnicamente per ora impraticabile; quella di scegliere direttamente chi ci governa. La dubbia, ma indubitabile fortuna propagandistica dell’accusa «non è stato eletto dal popolo!» contiene anch’essa un nocciolo razionale: la domanda di una scelta diretta. Il “popolo” non ha nessuna voglia di ridursi a giuria che proclama il vincitore dei posti in Parlamento.
La domanda di scegliere personalmente, con il voto, il capo del governo è, ovviamente, domanda di essere governati, domanda di vedere risolti i problemi. Infine, è ciò che chiede ciascuno di noi, quando delega qualcuno ad affrontare i problemi della convivenza pubblica. Certo, se il sistema istituzionale vigente non è più un sistema di governo efficace, allora, sì!, insorge la domanda del suo cambiamento, allora, sì qualcuno può cominciare a pensare che forse una delega più forte a un uomo forte potrebbe essere più efficace.
La domanda di cambiamento di istituzioni obsolete e quella di una designazione diretta del rappresentante e di una scelta personale del capo del governo è perfettamente democratica. Vero è che il cittadino normale non si interroga ogni giorno pensosamente se sia meglio il modello parlamentare o quello presidenziale, se il modello italiano o quello Westminster… Anche in questo campo, vige il più comodo sistema della delega. Ma si tratta di un delegare esigente, che la crisi istituzionale incombente rende ultimativo. Che però non sarebbe fedele al mandato se non desse risposta alla domanda di partecipazione/governo diretta.
Di fronte a tale quadro resta incomprensibile, in primo luogo sul piano intellettuale e, perciò, sul piano politico lo scetticismo/agnosticismo dell’area liberal/riformista circa le riforme istituzionali, tuttora ripiegata sulle policy e sulla politics. L’alibi è che la gente pensa ad altro. Ma proprio perciò loro dovrebbero pensare all’essenziale. I cosiddetti riformisti procedono, invece, come sonnambuli su un terreno minato, ignari del fatto che oggi, qui e ora, l’Institution building è insieme policy e politics, è il compito del presente.
Eppure le condizioni politiche sono oggi le migliori: ci sono quattro partiti, a una spanna l’uno dall’altro, che rappresentano circa l’80% dell’elettorato. Potrebbero benissimo, come suggerisce Marcello Pera, eleggere una nuova Commissione dei 75!