Goodbye BonafedeCartabia e l’imperdibile occasione offerta dalla guerra civile dei pm

La ministra della Giustizia ha rimesso la presunzione di innocenza al centro del dibattito pubblico, ricordandoci qual è il ruolo di un Guardasigilli. È uno dei vari motivi per essere ottimisti sulla sua riforma, che può contare su due formidabili coincidenze favorevoli: Berlusconi non ha più un ruolo predominante, e lo scontro interno alla magistratura dà meno legittimità ai pubblici ministeri manettari. È la volta buona?

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Le parole della ministra Marta Cartabia sulla presunzione di innocenza – l’unica forma di presunzione da anni del tutto assente dal nostro dibattito pubblico – ripaga di tante amarezze i pochi appassionati ai principi fondamentali della civiltà moderna rimasti nel nostro paese (l’ultimo participio, «rimasti», potete considerarlo riferito tanto agli appassionati quanto ai principi: sono pochi in entrambi i casi). 

«Occorre intervenire sui tempi del processo penale anche per contenere i rischi che il processo si trasformi in un anticipo di pena, quanto meno sul piano sociale», ha detto ieri la Guardasigilli. Perché, se c’è la presunzione di innocenza, «sul piano dell’effettività, con l’apertura di un processo penale, l’imputato, specie se il fatto è reso pubblico nel circuito mediatico, è esposto a un pregiudizio di colpevolezza sociale che può avere gravi ripercussioni sulla sua reputazione, sulle sue relazioni personali e sociali, sull’attività economica e su molti altri aspetti della vita della persona».

Si tratta di parole importanti soprattutto perché non sono state pronunciate in un’occasione qualsiasi, tanto per fare un po’ di retorica – cosa che comunque non guasterebbe, intendiamoci, dopo trent’anni filati di retorica sui tre indizi che fanno una prova, gli onesti che non hanno nulla da nascondere, «male non fare paura non avere» e simili giochi di parole con cui si è dato a intendere che la presunzione d’innocenza sia sostanzialmente una cosa che serve ai delinquenti, perché tanto «gli innocenti non finiscono in carcere» (Alfonso Bonafede, allora ministro della Giustizia, a Otto e mezzo, 24 gennaio 2020). 

No, quelle parole sono state pronunciate ieri in commissione giustizia, illustrando le linee fondamentali di una riforma su cui, secondo Cartabia, l’Italia si gioca le risorse del Recovery Plan (cioè la pelle), e probabilmente, aggiungo io, Mario Draghi rischia di giocarsi la sua maggioranza. 

Finalmente si torna dunque sulla questione della prescrizione, sui limiti all’appellabilità delle sentenze, sull’abuso delle pene detentive: in poche parole, su molti dei veri nodi che rendono la nostra giustizia non solo più lenta, ma anche, e prima di tutto, più ingiusta (se ora vi state chiedendo perché anche più ingiusta, tornate al capoverso che comincia con la parola «occorre» e rileggete il virgolettato da capo; anzi: imparatelo a memoria).

Certo, se guardiamo alla storia dei tentativi di riforma precedenti, non è facile trarne motivi di ottimismo, e il rischio che alla fine di tali propositi resti poco o nulla è altissimo. Dovendo dirla proprio tutta, non saprei se il pericolo maggiore al buon esito della riforma venga dai cinquestelle o dal Pd (volendo ancora ostinarsi a distinguerli, anche dopo le penose vicende romane, culminate nella dichiarazione di Francesco Boccia, membro della segreteria e titolare del dossier amministrative, che ieri a «L’aria che tira» ha detto testualmente: «Noi sosterremo l’alleanza con la Raggi, ma con Gualtieri sindaco»).

Ci sono tuttavia almeno due differenze rispetto al passato che consentono di coltivare, se non proprio un qualche ottimismo, quanto meno una timida speranza. La prima è che di fatto sulla scena politica è venuto meno il ruolo predominante di Silvio Berlusconi, la cui influenza polarizzava il dibattito in una specie di eterno guardia e ladri da cui era impossibile uscire.

La seconda differenza, probabilmente in parte conseguenza della prima, è la guerra civile che nel frattempo ha cominciato a dilaniare la magistratura. E che rende un po’ più difficile ai pubblici ministeri di grido (ancora in carica o in pensione), occupare le televisioni per spiegarci ancora una volta che tutti i guai della giustizia si risolvono mettendoci più soldi, perché il problema – proprio come il traffico, l’inquinamento o l’Etna della Sicilia di Johnny Stecchino – è la carenza di cancellieri, mezzi e materiale di cancelleria. Quando non dicono semplicemente e apertamente che il problema sono gli avvocati, e le leggi che consentono loro di intralciare il lavoro dei pm. 

Almeno nell’immediato e con tutto quello che sta uscendo a proposito del loro modo di utilizzare i testimoni, diffondere verbali che dovrebbero essere segreti, giocare di sponda con politici amici (e che amici!), possiamo sperare che gli abituali sostenitori di tali bislacche teorie sceglieranno, per una volta, la via di un opportuno, pudico, dignitoso silenzio. Ma non ci scommetterei.