Per comprendere la guerra scatenata da Hamas contro Israele è d’obbligo guardare a Teheran, dove venerdì mattina, in occasione della Giornata di Gerusalemme, la Guida della Rivoluzione Ali Khamenei ha ribadito un concetto chiaro: «Voglio che Israele venga distrutto. Israele non è uno Stato, ma una base terroristica contro la Umma palestinese e musulmana». Poi, bontà sua, a proposito di un suo comunicato ufficiale che citava la «Soluzione Finale», ha specificato che la distruzione deve riguardare solo lo Stato di Israele, non tutti gli ebrei.
Se si sommano queste parole al fatto che le armi più insidiose lanciate da Hamas contro le città e i civili israeliani sono i micidiali droni suicidi iraniani Shahab e gli insidiosi missili iraniani Badr 3 (volano in orizzontale, esplodono sopra venti metri dal bersaglio per massimizzare la devastazione) il quadro si chiude. Queste armi, esportate in massa a Gaza dai Pasdaran, necessitano di lanciatori super addestrati dagli iraniani a dimostrazione della piena eterodirezione dei Pasdaran stessi e degli oltranzisti iraniani della offensiva di Hamas e della Jihad Islamica che da Teheran è finanziata.
Dunque, è lampante che la guerra dichiarata da Hamas e Jihad Islamica contro Israele mirata a uccidere i civili, non ha solo l’obiettivo, pienamente raggiunto, di ridicolizzare e marginalizzare la leadership di Abu Mazen, ma è parte della strategia degli oltranzisti iraniani di imporre la propria aggressività bellica in Medio Oriente. Di fatto, oggi i palestinesi sono egemonizzati politicamente quanto militarmente dal blocco oltranzista iraniano che, anche grazie all’appoggio di Khamenei, si accinge a vincere le elezioni presidenziali di giugno (controlla già il Majlis, il Parlamento) emarginando l’area trattativista con l’Occidente di Rouhani e Zarif. Un quadro che spiega anche come, per la prima volta, la possibilità dell’Egitto, che ha rapporti tesissimi con Teheran, di mediare tra le parti, molto forte sino a ieri, si sia rivelata oggi inesistente.
Israele si deve difendere da questa strategia iraniano-palestinese in un contesto che non è più regionale, ma ormai diventato globale. Nel timore, peraltro, che l’Iran decida anche di far scatenare Hezbollah dal Libano e dalla Siria, a cui ha fornito un imponente arsenale missilistico. Uno scenario da incubo, con Israele sotto attacco missilistico da nord e da sud su tutto il suo territorio, senza scampo.
Israele è peraltro di fronte a una scelta complessa, perché sia il comando di Idf (le forze armate) sia il governo Netanyhau hanno ben chiaro che un affondo su Gaza con una operazione di terra avrebbe costi umani consistenti e non facili da reggere per un esecutivo dimissionario (nella guerra di Gaza precedente, nelle operazioni di terra morirono 66 soldati israeliani e 470 furono feriti). Ciò nonostante non è improbabile che alla fine questo passo venga compiuto con una escalation drammatica.
Brilla infine, ma non per ultimo, il balbettio e il vuoto politico della Amministrazione Biden che era convinta che il Medio Oriente fosse uno scenario marginale, tanto che non ha neanche nominato l’ambasciatore a Gerusalemme, che non ha canali con Hamas (Biden ha avanzato la tragicomica richiesta di far cessare il lancio di missili a un Abu Mazen, che di missili non ne dispone e che ha difficoltà persino a parlare con Hamas) e che soprattutto non ha una strategia per questo quadrante. Indicativo che Biden abbia inviato in Israele, per seguire la crisi, un personaggio del tutto marginale e privo di potere negoziale, Hady Amr ,il quale è solo sottosegretario del Dipartimento di Stato.
Il punto è che la convinzione di Biden sulla marginalità del Medio Oriente deriva da una analisi radicalmente errata della strategia dell’Iran nell’area. Ora, a fronte del palese e pieno coinvolgimento di Teheran nella guerra di Hamas contro le città e i civili israeliani, crollano i presupposti stessi della riapertura della trattativa sul nucleare iraniano su cui invece Biden ha puntato le sue carte.
Presupposti errati che si basano sulla convinzione che l’Iran sia uno Stato aggressivo, ma in fondo come tutti gli altri, disponibile a una logica della pace di Westfalia e non invece uno Stato sotto il controllo di un ferreo apparato militare e politico che si è imposto con una rivoluzione di massa e che afferma apertamente di volere esportare in tutto il Medio Oriente la rivoluzione iraniana e di distruggere Israele.
Strategia vincente in Iraq, Siria, Libano, Gaza e Yemen, favorita proprio dagli accordi sul nucleare firmati da Obama (e Biden) che, legittimando in pieno lo status internazionale dell’Iran, gli hanno permesso dal 2016 in poi di diventare egemonico in questi paesi. Un errore di dottrina che ora produce una impasse drammatica, che vede gli Stati Uniti che si auto-emarginano, non per scelta ma per incapacità e cecità di strategia, da una crisi deflagrante che incide in termini negativi sulla evoluzione della guerra in atto.
Un errore che ha un precedente nefasto nella disastrosa presidenza di Jimmy Carter.