Nel 2016 Google ha utilizzato un sistema di IA di DeepMind per ridurre il consumo energetico dei suoi centri dati, ottenendo un risparmio del 15%. E molta della cosiddetta share economy (economia della condivisione) sarebbe impossibile senza il digitale. In Italia, per esempio, nel 2016 la condivisione degli alloggi gestita attraverso piattaforme e applicazioni digitali ha portato a ospitare 3,6 milioni di turisti, per un volume di affari di 3,6 miliardi di euro, pari allo 0,22% del pil.
Questo riferimento positivo all’Italia non è casuale. La strategia verde-blu potrebbe svilupparsi molto favorevolmente nel nostro Paese.
Nel settore della green economy (economia ecologica) l’Italia è già all’avanguardia in Europa. E il valore ambientale e culturale del paese è ovviamente eccezionale.
Si dovrebbe investire molto su queste carte già vincenti. Si dovrebbe inquadrare la share e green economy come una grande opportunità di sviluppo e crescita, in coordinamento con una robusta economia dell’esperienza: benessere, cultura, enogastronomia, intrattenimento, salute, sport, tempo libero e turismo.
Si potrebbe iniziare con l’attuazione dell’accordo di Parigi sul clima, investendo a supporto diretto (infrastrutture) e indiretto (incentivi, disincentivi) dell’economia verde e blu; applicando l’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile; e adottando le direttive europee sull’economia circolare, basata sul riciclo e il riutilizzo completo dei materiali.
E, soprattutto, si potrebbe accelerare e irrobustire lo sviluppo delle tecnologie, dei servizi, delle competenze e degli investimenti digitali, in vista di una sinergia strategica digitale-ambiente.
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È da decenni che sappiamo che stiamo distruggendo il pianeta. Troppo facile scaricare tutto sulle spalle dei politici attuali. Anche loro vivono su questo pianeta, tengono famiglia, lo sanno che la pentola a pressione sta per scoppiare.
Ma si devono barcamenare tra quello che si dovrebbe fare – che è difficile e spesso impopolare, si veda il brutto pasticcio combinato da Macron quando ha aumentato il prezzo del diesel – e quello che i votanti desiderano, che a volte è bello ma impossibile, come la quadratura del cerchio: standard di vita alti per tutti, costi bassi per tutti, salvaguardando l’ambiente e rispettando i diritti umani.
L’equilibrio tra desiderato e fattibile si chiama consenso. Il consenso non manca a parole ma nei fatti, perché i costi per salvare il pianeta sono immensi. Le cifre variano, ma non la scala. Arrotondando, il conto va da 55.000 miliardi di dollari per un riscaldamento globale di 1,5 °C, a 70.000 miliardi di dollari per 2 °C, fino a 550.000 miliardi di dollari se arriveremo a 3,7 °C.
Si pensi che il Pil italiano nel 2018 è stato di circa 2084 miliardi di dollari. Stiamo lasciando alle future generazioni un debito immenso, più grande di un buco nero, in alcuni casi solo riparabile ma non più reversibile (per esempio le specie estinte), con sofferenze umane e conflitti giganteschi.
Alcuni pensano che ciascuno di noi debba cambiare i propri comportamenti perché ciò aiuterà a evitare questa mezza apocalisse in corso: docce brevi, meno carne, meno aerei, meno auto, più mezzi pubblici, riciclare, riusare, riparare, riscaldamento o condizionatore basso, spegnere la luce, non stampare email. Tutte cose giuste, ma inutili.
Usando un vecchio esempio, è come se ciascuno di noi spingesse un’auto che non parte, se e quando può, con l’idea che ogni piccolo sforzo aiuta. Non è così. C’è una soglia sotto la quale ogni sforzo individuale è nullo.
Ha ragione Kant: fare il proprio dovere non è giusto perché serve, è giusto anche se non serve, per potersi guardare allo specchio la mattina e riconoscersi umani. E sapere che è inutile è vitale, perché altrimenti uno dorme tranquillo la notte.
Invece l’insonnia della ragione genera idee ed è importante, perché per salvare il mondo bisogna organizzarsi, urgentemente. Serve tanto coordinamento, perché se tutti facciamo la cosa giusta (soprattutto votando) allora l’universalità del comportamento (di nuovo Kant) farà una bella differenza. E serve un consenso che non sia contraddittorio.
Ma come si fa a coordinarsi? Con sacrificio, buona legislazione, alleando pubblico e privato nell’unica guerra che dovremmo combattere, quella contro la fine del mondo e contro una società iniqua, e con tanta tecnologia digitale, per sapere di più, monitorare meglio e coordinare gli sforzi per spingere tutti insieme.
E come si fa a creare un mondo che sia accogliente per tutti? Migliorando radicalmente come innoviamo, produciamo e consumiamo prodotti e servizi. E anche qui il digitale può aiutare: per fare meglio, di più e altro, con molto meno o in modi alternativi.
Il debito che lasceremo a chi verrà dopo di noi sarà tanto inferiore quanto migliore sarà il matrimonio tra il verde dell’ambientalismo, dell’economia circolare e della condivisione, con il blu delle tecnologie digitali a servizio dell’umanità e del pianeta.
Attraverso il digitale, dobbiamo passare da un capitalismo consumistico a un capitalismo della cura. Non sarà facile, ma è il progetto umano per il nostro secolo.
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Oggi la tecnologia può diventare la migliore alleata della natura. Il guaio è che c’è poco tempo. Quindi non possiamo affidarci solo alle forze del mercato, che invece possono richiedere tempi illimitati.
I mercati consumano soprattutto tempo, una risorsa di cui hanno sempre bisogno perché “prima o poi l’equilibrio giusto emerge”; anche se è vero, non dice quanto sia lungo il “poi”.
Per questo abbiamo bisogno di aiutare i mercati con politiche lungimiranti di investimento nell’innovazione e formazione stem (science, technology, engineering, mathematics), di interventi legislativi per promuovere l’economia circolare, e di educazione dei consumatori a scelte più intelligenti.
Non è poco, ma si può fare, e si deve fare subito. Non solo per non buttare via niente del maiale, ma soprattutto per salvare capra e cavoli. Tutto rose e fiori dunque con la nuova alleanza tra verde e blu?
Non proprio. Il digitale non è una panacea. È una cura, e come tale presenta sia costi sia controindicazioni. Può fare molto bene all’ambiente e all’economia, ma non a costo zero o senza rischi.
La sfida è che l’impatto positivo salvi il nostro pianeta e la società umana prima che altri fattori, incluso l’impatto negativo del digitale, lo distruggano. Il che significa che il conto alla rovescia è già iniziato. Non abbiamo secoli a disposizione, solo decenni. Forse un paio di generazioni.