Ci sono funzioni del bosco che sono evidenti, con collegamenti che si fanno al volo: il legno, l’assorbimento di carbonio dall’atmosfera, il turismo, la sicurezza dei versanti scoscesi. Ce n’è invece uno più invisibile e poco trattato anche nello stesso mondo forestale, per quanto universale e fondamentale per la vita di tutti noi: quello con l’acqua.
Per quanto la associamo giustamente ai ghiacciai, alle precipitazioni e alle sorgenti di montagna, la qualità e la sicurezza delle nostre acque dipendono molto anche dalla salute e dal lavoro ecologico che si fa nei boschi. Di questo parliamo nella seconda puntata di Ecotoni, il podcast – viaggio nei boschi italiani che conduco con Luigi Torreggiani e Giorgio Vacchiano.
Se i ghiacciai sono dei «grandi magazzini» dell’acqua che arriva fino a noi, i suoli forestali sono invece un sistema che permette a quell’acqua di raggiungere elevatissimi standard qualitativi. Sono come un filtro naturale che le rende potabile senza ulteriori trattamenti. Il suolo dei boschi è pulito perché non trattato chimicamente ed è microbiologicamente attivo, funziona come una grande spugna che trattiene l’acqua e la filtra, portandola nelle falde sotterranee. In Italia ci sono 18mila sorgenti di acqua potabile in bosco, tra l’80 e il 90% delle fonti minerali alpine – che spesso diventano acqua in bottiglia al supermercato – si trovano in contesti forestali.
Per svolgere questa funzione di potabilizzazione dell’acqua, il bosco deve però essere gestito correttamente. C’è una serie di criteri selvicolturali di «protezione delle sorgenti» da applicare a questi boschi dell’acqua, sulle Alpi italiane sono 110mila ettari sotto questa protezione speciale, circa cinque ettari intorno a ogni sorgente. Sono aree che richiedono trattamenti speciali: i boschi dell’acqua devono essere misti, in generale di latifoglie, perché permettono un’infiltrazione maggiore e hanno radici più profonde, che favoriscono l’effetto filtro e quello tampone, che mantiene stabile il PH dell’acqua. In questi boschi non si può fare turismo intensivo, non si preleva legname e si asporta il legno morto, che di solito è utile per la biodiversità, perché in questi contesti rilascia troppo materiale organico.
Il secondo punto fondamentale è più politico ed è la domanda: chi paga per tutto questo lavoro ecologico di tutela per l’acqua? C’è un paradosso di fondo: i servizi ecosistemici sono l’unico tipo scambio nel quale oggi paga chi offre il servizio (cioè chi gestisce correttamente il bosco, in questo caso) e non chi ne usufruisce (tutti noi che usiamo l’acqua pubblica). I costi che sosteniamo nelle tariffe idriche infatti servono al funzionamento dell’infrastruttura ma non considerano il lavoro ecologico a monte per avere una fornitura di acqua pulita. In Ecotoni ne parliamo con Giulia Amato, esperta di pagamento dei servizi ecosistemici, che studia per conto di Etifor, uno spin-off dell’Università di Padova il cui motto è proprio «valuing nature».
C’è un ampio dibattito in corso da anni su come far pagare la cura delle risorse naturali in modo che queste non si degradino. «Si tratta di spiegare ai cittadini perché pagare per un servizio che prima avevano gratis e di inventare un mercato che prima non aveva prezzo», spiega Amato in Ecotoni. È un tema che diventerà sempre più attuale nel contesto presente e futuro dell’Italia come hotspot della crisi climatica, nel quale la risorsa acqua diventerà sempre più scarsa (fino al 40% in meno secondo il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici). Ci si arriverà, ci sono progetti pilota in Italia come quello del bacino del Brenta e casi internazionali famosi, come il pagamento dei servizi ecosistemici di New York. Il punto di partenza è educarci a pensare anche al bosco quando apriamo il rubinetto di casa.