La peggior generazione della storia dell’umanità è la mia. Lo dico subito, giacché in questo articolo si parlerà di miei coetanei, e di trentenni, e di novantenni, e ci tengo a dire che, sebbene i trentenni possano facilmente apparire più imbecilli, di loro si può almeno sperare che migliorino crescendo. Noialtri abbiamo perso l’occasione di combinare qualcosa (alla nostra età, i novantenni avevan già fatto tutto, compresa una guerra), e nemmeno abbiamo più speranza di redimerci.
C’è un gruppo milanese chiamato I sentinelli, il nome fa il verso agli estremisti cattolici, la linea politica è quella del club dei giusti: chiedono la rimozione della statua di Montanelli, organizzano la piazza milanese a favore della legge Zan. Ieri hanno pubblicato su Facebook un post in cui compiaciutamente dicevano di non volere il sostegno alla legge Zan di Alessandra Mussolini.
Il post mi è comparso perché l’ha commentato Natalia Aspesi, di cui ho la fortuna di essere amica su Facebook e il privilegio di essere amica nella vita. Il commento di Natalia, 92 anni a breve, diceva così: «Mi pare stupido: anche tra i fascisti ci sono gay. Quelli lasciate che li pestino?».
È stata la perfetta conclusione di una settimana in cui una novantaduenne si era presa il disturbo di dire cose di buonsenso, e gli adulti delle generazioni che non hanno mai combinato un cazzo si dilettavano a sdegnarsi, apparentemente inconsapevoli che comunque un divario oggettivo c’è. Una quarantaduenne la cui principale occupazione è fare il femminismo su Instagram ha postato venerdì, con filtro seppia, alcune decine di storie in cui inveiva contro Natalia (senza nominarla – le femministe di Instagram hanno imparato da Veltroni a non dare dignità di nome agli esponenti dello schieramento a loro avverso: a lui portò benissimo).
Adesso arrivo al pretesto della sua ira funesta, ma prima vorrei notare che secondo lei Natalia ciancia di femminismo «non si sa mostrando quali mostrine di grandi cambiamenti fatti con il suo aiuto dalle donne». Sintassi a parte, ho l’impressione che, se parli di una che è nata quando le donne non avevano diritto di voto, e ne parli in un’epoca in cui il battagliero traguardo è far abbassare l’aliquota iva sugli assorbenti, forse non sei la più titolata a giocare alla suffraggetta che lei sì sta cambiando le cose.
Comunque: la quarantaduenne ha diciassettemila follower, quindi non è di lei che mi occuperò. Anche perché devo ancora dirvi quale fosse il pretesto che ha fatto scomodare ben altri bacini di consenso social.
Venerdì sono usciti, per coincidenza, due scandalosissimi pezzi della Aspesi. Una era la sua risposta all’abituale rubrica delle lettere sul Venerdì. Rispondeva a un’indignata perché Natalia aveva osato difendere il biografo di Roth. La lunga risposta conteneva le preveggenti frasi «Certe battaglie funeree che mettono sullo stesso piano le molestie e lo stupro mi pare abbiano fermato solo le molestie ma non ancora lo stupro», e «Pretendere che il passato sia stato come l’oggi è ingiusto». Diavolo d’una donna, ha scritto dieci giorni prima la risposta ai deliri di Instagram di dieci giorni dopo.
Venerdì infatti, e questa è stata la causa principale dell’isteria delle cancellettiste, Natalia scriveva su Repubblica di Luana D’Orazio, l’operaia inghiottita da un macchinario che ha fatto scoprire ai giornali la questione delle morti sul lavoro. Aspesi – con la grazia d’una signora beneducata d’altri tempi, la solidità di chi è cresciuta quando a sinistra si studiava Marx e non i cancelletti, e il senso delle priorità di chi ha visto guerre mondiali e non solo il trauma della connessione che s’interrompe mentre guardi Netflix – ha scritto settanta garbate righe per dire che forse dovrebbero (le giovani femministe) occuparsi anche di questa drammatica questione, se il bodyshaming (cioè: quelli che mi dicono che sono una vescica di lardo) e il catcalling (cioè: quelli che mi fa fischiano per strada benché io sia una vescica di lardo) lasciano tempo.
Non paga di questa vergognosa provocazione, ha osato pure ricordarci che sul lavoro muoiono più uomini, il che se sapete leggere è un pizzino ai giornali che si occupano del problema solo quando muore una ragazza fotogenica, e se invece avete il cervello a forma di cancelletto apriti cielo.
Trentaduenne, duecentotrentamila e fischia follower, moltiplicati quando Chiara Ferragni l’ha indicata come sacerdotessa del nuovo femminismo (il che le ha finalmente portato ciò cui il femminismo di Instagram tende: case di moda che ti paghino per indossare i loro prodotti), la signorina che non nominerò ha diviso la sua invettiva in meno storie rispetto alla quarantaduenne (la verbosità ci viene invecchiando), ma molto interessanti.
Comincia anche lei col benaltrismo, categoria dello spirito già utilizzata da quella col filtro seppia (che si era rifiutata di nominare, oltre che Aspesi, anche Repubblica, indicandola come «la gazzetta del benaltrismo»). Secondo lei dire che le morti sul lavoro sono più gravi di chi ti fischia per strada è benaltrismo, serve a «deviare l’attenzione dal topic principale» (come tutti coloro che non hanno il dominio d’alcuna lingua, queste ragazze tendono a mescolarle malamente).
Tanta confusione mentale è figlia del MeToo e della sua convinzione che fare gerarchie dei problemi sia offensivo (mica quella ammazzata di botte ha più ragioni di lagnarsi di me cui hanno detto «vescica di lardo», diamine). Altrove, si tenta anche di razionalizzare l’obiezione.
Altrove e cioè nei commenti d’altro innominato. Quarantasettenne (con stile di vita da trentenne e raziocinio da quindicenne), fumettista, quarantamila follower su Facebook. Che cos’ha scritto ve lo dico dopo, perché merita un siparietto comico tutto suo. Prima i commenti, il mio preferito dei quali, ricordiamo relativo all’aver un’editorialista osato dire che «abbòna» per strada è meno grave che morire alla catena di montaggio, è: «La scaletta delle umane priorità la stabilisce Natalia Aspesi, a cui le comunica direttamente il Dio dei vecchidimerda». (Peraltro, essendo Aspesi assai più garbata di me, nell’articolo non dice neppure quali imbecilli falsi problemi siano quelli su cui ci si concentra: come una signora dei tempi in cui esistevano le buone maniere, scrive «giusta battaglia contro i maschi sopraffattori», prima di osare suggerire di trovare tempo per occuparsi anche di operai uccisi dalle catene di montaggio o dai cantieri).
Nessuno studia niente, nessuno si prepara su niente, nessuno si preoccupa di sapere ciò di cui parla, prima di contarsi i cuoricini. È la sintesi d’un qualunque giro sui social e di questo in particolare.
Non sa niente la trentaduenne che dice, delle righe in cui Aspesi ricorda che muoiono più uomini, «grazie al cazzo, perché mancano politiche di welfare», e quindi ci sono meno donne nel mondo del lavoro. No, pulcina: è perché ci sono solo uomini nei cantieri, dove muore la più parte di chi muore sul lavoro, e non ci sono donne nei cantieri per ragioni diverse dagli asili nido – se ti concentri capisci da sola quali.
Non sa niente, né ha il senso del ridicolo, il quarantasettenne che così dà la stura a centinaia di commenti indignati: «La Aspesi sente la necessità di usare la morte di una ragazza per poter scrivere nel suo pezzo parole come “catcalling”, “bodyshaming” e Tik Tok (che, si sa, con i webcrawler vanno forti) e dire alle giovani ragazze che i veri problemi sono ben altri». Quindi secondo lui Natalia Aspesi – novantaduenne editorialista d’un giornale che oltretutto fa pagare la lettura on line dei suoi editoriali, e i cui testi non finiscono quindi nei motori di ricerca – si mette lì a scrivere e dice: mmm, vediamo come posso diventare trending topic.
Questo articolo potrebbe essere lungo come “Via col vento” (un romanzo pieno di bodyshaming), giacché ci sono centinaia di meraviglie citabili. La trentaduenne esagitata dice che Aspesi l’articolo l’ha scritto perché «ha dei grossi problemi personali con la quarta ondata, da tempo, lei è una second waver» – ci manca solo: è invidiosa perché noi siamo giovani e modelle. Sempre la trentaduenne dice senza ironia che, fosse nei parenti della ragazza morta, «io una querela la farei» (il fantasioso rapporto dell’internet col codice penale, la commedia che non capisco come mai nessuno abbia ancora scritto).
Queste deliziose tele bianche sulle quali nessuno ha mai pittato una nozione, se leggono una che dice che nella battaglia contro le morti sul lavoro «non lasciandola solo ai sindacati e alla politica […] potreste dare una mano essenziale, armando di indignazione i vostri follower», la traducono in: sta cercando di deresponsabilizzare la politica. Se leggessero Marx direbbero che è un maschio bianco privilegiato che non si occupa dei diritti dei trans. Siccome non lo leggono, trovano offensivo che qualcuno dica a militanti di sinistra di occuparsi di diritti del lavoro, quando ci sono i diritti ai pronomi giusti cui dedicarsi.
I follower del quarantasettenne ci spiegano che se ci fischiano per strada o ci danno di culone poi arrivano «depressione e disturbi alimentari» (ci vorrebbe una guerra, o almeno la miniera: lo dico io perché Aspesi è troppo garbata anche solo per pensarlo); che «il sessismo è personale, quindi è normale che se ne parli di più» (la fortuna di Marx di arrivare prima che decidessimo che esiste solo ciò in cui possiamo specchiarci).
A un certo punto arriva una persona normale e chiede «perché nessuno ha scritto alle fabbriche per chiedere di migliorare i protocolli di sicurezza ma tutti hanno scritto a Repubblica per insultare la Aspesi?», e sembra un’aliena.
Il quarantasettenne invoca un pensionamento della generazione di Aspesi (avvenuto il quale si scoprirebbe che la nostra è piena di Hemingway, mica di piscialetto che si autocertificano grandi successi). Il mio preferito, tra molte centinaia di commenti, è quello d’un tizio che scrive, a nome dei nati dell’ultima parte del Novecento, la più taciuta delle grandi verità: «La vedo dura, quella generazione paga la mia per fare i “food blogger fashion advisor” in Australia».
Meno male che la Aspesi c’è, almeno mentre facciamo mestieri in cui contarci i cuoricini abbiamo qualcuno che ci ricorda com’è il mondo senza filtri seppia.