Qualsiasi lista di intellettuali contemporanei è destinata ad apparire insoddisfacente. Se ne sono accorti anche al New York Times, quando l’editoralista Ross Douthat ha tentato di stilare un elenco dei pensatori più influenti – che non significa migliori – del nuovo millennio. Una delusione. Si va da Ta-Nehisi Coates a Slavoj Žižek, insieme a Peter Thiel, Ibram X. Kendi e, udite udite, Robin DiAngelo (l’inventrice del concetto di “fragilità bianca”). Non manca il discusso Jordan Peterson e il best seller Yuval Noah Harari. Quale di questi nomi potrebbe diventare il prossimo Dostoevskij o il futuro Karl Marx?
Il timore è che la risposta sia: nessuno. È un malessere che pervade la cultura americana, e l’anglosfera in generale anche se i nomi apparsi altrove non incoraggiano granché.
Una delle cause che viene indicata è che oggi tutti gli intellettuali, o quasi, sono giornalisti. Sia per professione che per spirito. Verrebbe da aggiungere che fin dai tempi di Luciano Bianciardi la figura dell’intellettuale era difficile da definire, sfuggiva alle categorie e rifiutava classificazioni (e per questo era porosa, almeno abbastanza da assorbire diversi ciarlatani). Rimane il fatto che, a grandi linee, non si parla più di “intellettuali” come un gruppo a sé, ma ci si limita, soprattutto negli Stati Uniti, a “media” e “accademia”.
Nel mondo della letteratura, che ha spesso funzionato come un serbatoio di riserve della repubblica degli intellettuali, la situazione appare simile: tutto langue.
La forma romanzo è meno in crisi di quanto si pensasse, quella della poesia invece è messa peggio. In ogni caso, mancano i Philip Roth e i Saul Bellow. Mentre altrove qualcosina si muove ancora: Michel Houellebecq in Francia e Karl Ove Knausgaard in Norvegia, ma nonostante l’indubbia qualità le aspettative non sono alte.
Le ragioni di questa fase di stanchezza sono diverse. Douthat le trova nel radicalismo degli anni ’60, che ormai (dopo 60 anni) ha perso la spinta di una volta. Altri alla malinconia innescata dal post-1989 e dalla cosiddetta fine della storia.
Ma secondo questo articolo di Nick Burns apparso sul New Statesman, la causa principale è da cercare nell’assenza di avanguardie. Emergono sempre nei momenti di grande cambiamento. Sono piccoli gruppi di intellettuali insolenti e ribelli, spesso ai margini, sempre arrabbiati con la cultura mainstream e a capo di piccoli magazine e pubblicazioni di scarsa diffusione ma con buona risonanza. Si astraggono dalle classificazioni, evitano le correnti, fanno arrabbiare più o meno tutti per motivi diversi e a volte non hanno nemmeno un forte spirito politico.
Ebbene, che fine hanno fatto? Nel Portogallo della Prima Guerra Mondiale è emerso Fernando Pessoa, il realismo viscerale del Messico degli anni ’70 è tornato in Roberto Bolaño (il suo “I detective selvaggi è una lettera d’amore a quei movimenti underground che rubavano libri dai mercatini e odiavano i letterati più celebri, tanto da voler rapire il poeta Octavio Paz).
Anche oggi c’è il disordine e, più ancora, le contestazioni. Eppure non si vedono avanguardie. Ci sono gli scrittori progressisti, che come Robin DiAngelo capitalizzano sui conflitti ideologici in atto, ma di sicuro non cercano di épater les bourgeois. Oppure ci sono i critici della “cancel culture” come Yascha Mounk, ma non è certo avanguardia. A destra ci si impegna a rispettare la tradizione, a sinistra si cerca di rovesciare il sistema con il dibattito intersezionale, ma di estetico non viene creato nulla.
Forse il motivo è la mentalità giornalistica. Gli autori e i pensatori sono troppo concentrati sulla battaglia politica e sull’attivismo per concentrarsi sulla forma.
O forse è proprio nell’istituzionalizzazione del mestiere di scrivere, che è diventato una carriera percorribile attraverso corsi e master di scrittura, con il risultato di una produzione omogeneizzata e conformista, dove si rivedono gli stessi stilemi declinati – al massimo delle novità – cambiando il punto di vista di chi parla. Più che letteratura, è testimonianza, che può anche andar bene ma non ha niente a che vedere con l’arte.
Resta solo la resa, allora? Secondo Burns no, o non ancora. Qualche motivo di speranza lo trova in due riviste. Una è la rivista The Fence, inglese, che esprime una nuova satira nei confronti del mondo letterario e giornalistico inglese. La seconda è The Drift, magazine di New York che esprime aria fresca – di sinistra. Forse l’avanguardia è qui. Ma per saperlo dovremo aspettare di venirne stupiti, a volte abbagliati, di sicuro sconvolti.