Casa comuneVogliamo un sindaco che ci renda felici e questo influisce sul nostro voto

Scegliere la persona che deve guidare la nostra città è come scegliere un capo-condominio: è una decisione emozionale più che politica. Quindi, per prevedere il risultato delle elezioni, bisogna usare un nuovo modello di indagine. È ancora presto per applicarlo alle Amministrative del prossimo autunno, ma non per spiegarvi come funziona

Roberto Monaldo/LaPresse

Impazzano i sondaggi sulle elezioni comunali dell’autunno prossimo. Si chiede però ai sondaggi quello che i sondaggi non possono dare. O meglio, si chiede ai sondaggi di cambiare quello che non può essere cambiato. Spieghiamoci meglio.

I sondaggisti, in vari casi, scambiano le elezioni comunali con quelle politiche, cioè sommano i voti dei partiti, come succedeva nella Prima repubblica. Effettivamente così era: nella Prima Repubblica gli scostamenti per tutti i partiti erano di uno o due punti percentuali ogni cinque anni e le comunali rispecchiavano perfettamente gli “equilibri politici”, cioè non si discostavano dal voto politico. I voti erano quasi pacchi postali che si potevano spostare secondo le decisioni dei maggiorenti politici, a prescindere dal candidato.

Era così. Non è più così. Basti un solo esempio: due anni fa Antonio Decaro, candidato a Bari del centro-sinistra, viene eletto sindaco con il 66,7 per cento al primo turno e nello stesso momento, gli stessi elettori, sulla scheda per le Europee, danno al centro-sinistra molto meno del 30 per cento. Stesso giorno, stessi elettori. Quando si vota per il sindaco si elegge il sindaco, quando si vota per le Politiche si vota per il governo: gli elettori lo sanno!

Il difetto più grave, però, non è neppure questo, perché nella mente degli elettori le cose funzionano in modo abbastanza diverso quando si tratta di eleggere il sindaco, soprattutto se è candidato il sindaco uscente, o se bisogna votare con metodo proporzionale per le elezioni politiche. Quando è candidato il sindaco uscente, gli elettori, prima di tutto, si fanno una domanda, una sola domanda, dalla cui risposta procede poi tutto il resto e la domanda è: il sindaco uscente ha fatto un buon lavoro? Merita la riconferma, cioè merita la mia fiducia?

Se la risposta è “sì” (ovviamente un “sì” maggioritario) si può anche evitare di fare la campagna elettorale e di spendere soldi (meno che mai proseguire con i sondaggi), perché quel sindaco sarà riconfermato. Se la risposta è “no”, allora si possono cominciare i giochi. Allora la chiave di tutto è la risposta alla prima domanda, che non può essere un semplice quesito posto in un sondaggio, ma qualcosa di molto più probante, alla cui definizione possono anche contribuire i sondaggi, ma per cui serve soprattutto la capacità di comprensione del pensiero profondo dell’opinione pubblica.

Lavorando sugli studi di Allan Lichtman, professore all’American University di Washington, che ha esaminato tutte le elezioni presidenziali americane dal 1860 in poi, esattamente il rapporto tra candidati uscenti e sfidanti, abbiamo predisposto un modello previsivo per le elezioni, che abbiamo già sperimentato con un successo pieno nelle ultime elezioni regionali (prevedendo tutti e sei i risultati) che utilizza in parte i sondaggi, ma è fondato sostanzialmente su giudizi politici per quanto più possibile oggettivi. Trattandosi di politica, per noi “oggettivo” significa il giudizio effettivo degli elettori. Come funziona?

Si crea una batteria di 13 domande a cui bisogna solo rispondere “vero” o “falso”. Se le risposte di “falso” per il candidato considerato saranno 5 (o meno di 5) vincerà le elezioni; se, invece, saranno 6 (o più di 6) le perderà. Dovremmo avere sulle spalle almeno qualche decina di prove sul campo, ma ne abbiamo solo sei, perciò non sappiamo dire qual è il margine di errore del modello, ma è utile continuare.

Non appena sarà chiaro il parterre dei candidati nelle città principali faremo la nostra previsione. Per adesso è molto utile capire come funziona. Quali sono, allora, le domande a cui bisogna rispondere “vero” o “falso”? (Naturalmente non sempre è possibile rispondere alle singole domande in maniera intuitiva, in quei casi allora possono essere utili i sondaggi, o meglio i focus group o, ancora meglio, l’interpretazione semantica dei commenti sui social media: a ogni domanda corrisponde lo strumento specifico di supporto alla risposta).

La prima domanda (party mandate) è: “Il partito (o coalizione) che sostiene il candidato nelle ultime elezioni disponibili ha avuto la maggioranza dei voti”? La seconda domanda è: “Non c’è nessun serio candidato dalla sua parte politica che concorre (o è in sua opposizione)”? La terza domanda è: “Il candidato è attualmente sindaco”? La quarta domanda (contest) è: “Non c’è un terzo candidato in gara” (s’intende: la corsa è ristretta a due candidati realmente in gara o a più di due)? La quinta domanda è: “Qual è l’opinione generale sul sindaco uscente”? La sesta domanda è: “Non ci sono tensioni sociali innestate dal sindaco uscente”? Ci fermiamo qui con la descrizione delle domande: se il numero di risposte “falso” per il candidato supera le cinque (su tredici), con una probabilità estremamente alta, perderà le elezioni. Lasciamo allora il dettaglio del modello e ragioniamo sul suo senso generale.

Il punto cruciale del modello è che la gente, quando va a votare alle Comunali, raramente si chiede quale sia il miglior partito o schieramento politico che possa guidare la città, ma qual è il miglior sindaco, cioè la migliore persona, che può guidare la città. Ovviamente, c’è chi esprime un voto d’appartenenza politica, ma non sono la maggioranza. Si può definire empiricamente il voto d’appartenenza politica a un partito approssimativamente come il risultato minimo che quel partito ha ottenuto nelle ultime quattro tipologie di elezioni (Comunali, Regionali, Nazionali, Europee). Se si fa questo calcolo per ogni singola città, e per qualunque partito, si vedrà che è sempre poco consistente, perché le oscillazioni sono sempre notevolissime. Ad esempio, a Roma il Pd ha oscillato tra il 17,2 per cento e il 30,6 per cento, perciò diremmo che il voto d’appartenenza è intorno al 17 per cento.

Se non ha molto senso proiettare i voti politici sul candidato, ed è prevalente la personalità del candidato sindaco rispetto allo schieramento politico, bisogna indagare meglio cosa sia la personalità in chiave politica, perché si tratta di un’accezione della personalità molto particolare. Possiamo sintetizzare (e perciò semplificare) in tre qualità: 1. lo spessore della persona in sé; 2. la sua adeguatezza rispetto al target della maggioranza assoluta e 3. l’intensità e la qualità dell’immaginazione che suscita. Vediamo di specificarlo meglio.

Lo spessore della persona è l’aspetto più facile da indagare: significa come la persona è vista, com’è percepita (l’esse est percipi difficilmente si cambia nella campagna elettorale, paradossalmente può essere più facile per un candidato sconosciuto); quello che ha fatto nella vita; il grado generale di affidabilità che emana. In una parola è il suo valore, a prescindere dallo schieramento politico favorevole o avverso.

La sua adeguatezza rispetto alla maggioranza assoluta significa che, trattandosi di elezioni in cui bisogna comunque conquistare oltre il 50,0 per cento, al primo o al secondo turno, dev’essere uno che potenzialmente possa essere votato dalla maggioranza assoluta della popolazione. Questo vincolo non c’è nelle elezioni proporzionali o a un solo turno, ma nell’elezione del sindaco è fondamentale.

Il terzo criterio è il più decisivo, per quanto meno circostanziabile rispetto a primi due, perché in qualche modo li sintetizza e aggiunge l’elemento essenziale, cioè la capacità di suscitare l’immaginazione degli elettori. Nel voto è decisiva la ricerca dell’elettore di un senso di gratificazione rispetto al voto. Deve essere felice di votare il suo candidato o essere felice della distruzione del suo nemico, perché i due elementi sono equivalenti, anzi il secondo è più forte del primo. Quale emozione suscita il candidato, quale immaginazione innesta rispetto a come può essere la città, o quali fantasmi (se vogliamo) agita?

Nella storia italiana, nella storia effettiva, non c’è nessun ruolo politico (se non il capo del proprio partito d’appartenenza, che coinvolge però pochissime persone) che più del sindaco ingeneri emozioni e rispecchiamenti emotivi dell’elettore. Lasciate perdere i programmi astratti, onnicomprensivi e le liste di parole d’ordine che non smuovono nessun sentimento. Il sindaco è insieme il capo-condomino e il simbolo della città: è una chimica strana, che però si lega in maniera stringente, perché nessuno vuole il primo senza il secondo o il secondo senza il primo. Diceva Lyndon Johnson che «quando il peso della Presidenza mi sembra troppo pesante, allora penso che potrebbe essere ancora peggio, se facessi il sindaco». Il sindaco è una figura peculiare, non una figura minore. Bisogna prenderne atto.

Allora la chiave è che bisogna essere felici del proprio sindaco. O che bisogna molto odiare uno dei candidati per poter votare l’altro. Da questa dicotomia emotiva non si esce. La città assomiglia troppo alla propria casa, per non proiettare su di essa gli stessi sentimenti. «Come sindaco di Londra», dice Sadiq Khan, «la mia priorità più alta è rendere la città al sicuro dal male». Come la propria casa; come la propria famiglia; come sé stessi. Il legame “viscerale” delle due dimensioni casa-città determina il contesto psicologico in cui avviene il voto. La politica è dentro queste due dimensioni, non sopra.

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